Le catechesi dell’Arcivescovo: il magistero della realtà.

Dicono che non sarà più come prima. Forse sarà vero. Ma potrebbe anche non essere così.

Riflessione dell’Arcivescovo Roberto in tempo di pandemia:

Il magistero della realtà.

Nello sviluppo della persona umana uno degli snodi cruciali è il passaggio dal mondo dei desideri a quello della realtà. Il bambino inizia a comprendere che non basta volere, esigere, pretendere, ma esiste un limite che si chiama realtà e che si situa di fronte a lui e ai suoi desideri con dei e dei no. Scopre così i limiti. Alleati della realtà sono i genitori, le situazioni quotidiane, gli altri, le malattie, i limiti dello spazio e del tempo. Questo non significa certo che i desideri siano annullati. Anzi il desiderare è una delle caratteristiche più propriamente umane, spesso svincolata dal “bisogno” che invece è inscritto negli animali e determina le loro risposte. L’uomo può desiderare al di là del suo bisogno immediato, desiderare il bello, il giusto, il vero. Desiderare Dio.

Come ricordava Sant’Agostino: il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te. Il desiderio spinge la persona verso altri orizzonti, ma per essere desiderio maturo, deve entrare in dialogo con il mondo della realtà.  In questi ultimi mesi abbiamo dovuto fare i conti quotidianamente con la dialettica tra desiderio e realtà. Ci è stato chiesto, e quasi imposto, un passaggio brusco, forte, esigente. Abbiamo compreso di non essere onnipotenti come singoli e come umanità. Nonostante i progressi della scienza e della tecnica non possiamo far tutto; con difficoltà possiamo fronteggiare le malattie, superare la fragilità del corpo, ma non possiamo impedire la nostra ultima caducità che è la morte.

Ci siamo scontrati con il desiderio di onnipotenza del potere economico, che credeva di poter muovere e maneggiare tutto. Esso stesso si scontra con questi limiti umani che creano disordine, squilibrio, instabilità a cui la stessa economia non riesce a rimediare se non in parte e spesso sacrificando la parte più debole: i poveri. Anche il potere politico si è scontrato con i propri limiti: la difficoltà di organizzare, di prevedere, di indirizzare le risorse, di far fronte alle difficoltà che ogni giorno si accrescono. Anche qui i grandi progetti e i desideri si scontrano, appunto, con la realtà prospettandoci una nuova maturità a cui speriamo di giungere. Perché non è certo che questo Magistero della realtà davvero possa stimolare in noi la ricerca di nuovi itinerari. Ci sarà la tentazione di fare “come se”, di ritornare allo stile di prima.

Queste stesse dinamiche hanno toccato la nostra vita cristiana, la dimensione ecclesiale, le manifestazioni della fede, sia personali che comunitarie. Eravamo infatti abituati a certi ritmi e stili, a certo modo di vivere e comunicare la fede. La realtà ci ha imposto invece l’assenza, la distanza, il silenzio, il digiuno eucaristico, il silenzio dei segni, delle celebrazioni, dell’incontro. Come stare di fronte a questa realtà inaspettata e quali desideri far nascere in noi, per far sì che sviluppino una dialettica di maturazione?

Potremmo essere tentati di vivere la sindrome del giunco: sperare che tutto passi presto per ritornare come prima. Oppure possiamo prestare ascolto alla realtà e comprendere cosa ci sta insegnando per il futuro, e quali nuovi atteggiamenti, per i singoli e la comunità, possono nascere anche attraverso la durezza del suo insegnamento. Il Signore non ci salva dalla storia, ma nella storia. L’assenza e il silenzio che ha segnato la vita sacramentale, specialmente la celebrazione Eucaristica, ci ha fatto comprendere quanto ciò che ci veniva offerto, forse anche troppo frequentemente, ha bisogno di essere rivalutato in profondità.

Abbiamo capito con maggior forza che esiste una relazione unica e speciale tra comunità ed Eucaristia, ma dobbiamo educare questo desiderio che deve divenire vita e missione e non solo “fruizione” di una celebrazione. Questo vale per i laici e per i preti: un invito a preparare, curare, valorizzare, vivere la celebrazione Eucaristica come il momento della festa e dell’incontro, evitando la frettolosità e a volte la superficialità che può caratterizzare le nostre celebrazioni.

La dimensione comunitaria poi è stata sottolineata proprio dalla distanza, dalla solitudine. L’importanza del celebrare insieme, del credere insieme, ci ha fatto capire il senso delle parole comunità, comunione, condivisione, popolo di Dio. Abbiamo di nuovo gustato, anche se fugacemente, la possibilità di vivere e condividere la fede in famiglia, con gesti semplici ma profondi.

Ecco, la realtà, ferendo forse i nostri desideri di onnipotenza ne ha fatto intravvedere altri da sviluppare, connessi con il silenzio, la distanza, il vuoto. Sono dimensioni che ci hanno spaventato al principio, ma che ci fanno capire che se non c’è silenzio non c’è parola; se non c’è distanza non si valorizza la prossimità; se non c’è il vuoto non valorizziamo ciò che può riempirlo.

Come sarà il futuro del dopo pandemia? Migliore del passato? Molti dicono che non sarà più come prima. Forse sarà vero. Ma potrebbe anche non essere così. Saremo tentati di riportare tutto come era prima, alle nostre abitudini, sia personali che comunitarie. Saremo tentati di nuovo dal narcisismo e dalla lusinga statalista.

Riguardo al narcisismo, pensiamo solo all’esplosione dei social. Bisogna riconoscere che sono stati veicolo di informazione, contatto, aiuto nelle relazioni, ma in essi vi è sempre in agguato la tentazione narcisista ed esibizionista. Anche nell’ambito del clero e delle celebrazioni liturgiche. Riguardo alla tentazione statalista, nei momenti di emergenza, e certo giustificato, lo Stato ha avuto necessità di limitare, imporre, incanalare. Potrebbe essere tentato di limitare ancora gli spazi di libertà e autonomia della persona.

Dunque la realtà insegna. Educa il desiderio. A condizione di accogliere la lezione, elaborarla, farne oggetto di riflessione. Come comunità civile e come Chiesa.

+Roberto, Arcivescovo


Pubblicato su L’Arborense n.16 del 26 aprile 2020