XIII Domenica del Tempo Ordinario. L’approfondimento della Parola.

Non rinunciamo all’amore della famiglia, ma le anteponiamo l’amore per Cristo.

La tredicesima domenica del Tempo Ordinario, presenta il Vangelo secondo Matteo con questi riferimenti: Mt 10, 37-42 (consulta il brano evangelico e tutta la Liturgia della Parola di questa domenica).


Approfondimento al brano evangelico.

La sezione conclusiva del discorso missionario del Capitolo 10 di Matteo, che leggiamo nella tredicesima domenica del Tempo Ordinario, affronta i temi della radicalità del discepolato e dell’accoglienza in seno alla comunità cristiana.

Il primo vangelo è rivolto a una comunità di ebrei seguaci di Gesù, in un tempo in cui la novità cristiana poteva provocare scandalo e divisioni all’interno delle famiglie. Non si rinuncia all’amore per i genitori o per i figli, ma gli va anteposta l’opzione per Cristo, per essere degni di lui. Come nei versetti precedenti, Gesù dichiara solennemente come il discepolato comporti il rischio della persecuzione e della sofferenza. L’immagine del prendere la croce richiama anzitutto la disponibilità al martirio (i condannati dai romani portavano lo strumento del supplizio fino al luogo dell’esecuzione), ma la croce è anche il segno supremo di
un amore che si dona totalmente senza trattenere nulla per sé, trovando in tale svuotamento la vera realizzazione individuale. È sequela di Cristo in entrambi i sensi ed è il paradosso del perdersi per trovarsi.

In fondo, il discepolato è minacciato non tanto dagli affetti umani quanto dalla brama di trovare la propria vita, vivendo per la preservazione di sé o peggio per l’accumulo. Farsi condurre dalla ricerca degli interessi personali significa votarsi a una vita vecchia, stanca e insipida. Tutto ciò è soprattutto vero per i missionari (cui si rivolge questo discorso), i quali, a causa del possibile sradicamento dalla famiglia e della dedizione totale all’annuncio, diventano come poveri da accogliere.

La comunità cristiana è chiamata a distinguersi nella condivisione: i profeti e i giusti (probabilmente annunciatori itineranti) vanno accolti e sostentati, sapendo che in essi si accoglie Cristo, così come – perché la comunità di Matteo non conosce privilegi di ruolo – è associata la ricompensa della vita eterna all’accoglienza dei piccoli, cioè dei discepoli più deboli e fragili.

Va sottolineato che la comunità è chiamata a crescere non nella povertà, che non è un ideale biblico, ma nell’accoglienza e nella condivisione. Il cristiano dovrebbe amare non di essere povero quanto imitare Cristo povero, così come non ama le disparità sociali, ma chi le subisce e lo supporta affinché non le subisca più. Un aspetto che potrebbe turbarci è che Matteo indirizzi il dovere dell’accoglienza solo a membri della comunità e non esplicitamente a tutti gli uomini.

Non dovrebbe stupirci, se ribadiamo il fortissimo carattere comunitario del primo vangelo e ricordiamo le esigenze della prima comunità, perseguitata e indigente, com’è ancora in tante parti del mondo. Non possiamo tuttavia nasconderci che nell’occidente raramente il cristianesimo è causa di rottura
e l’ultima nostra povertà è quella materiale. Forse dovrebbe turbarci e scandalizzarci soprattutto la discrepanza cui
talvolta assistiamo tra l’effetto originario del vangelo e la presenza spesso insignificante del cristianesimo nella società.

A cura di Maurizio Spanu