Nostra Signora di Bonacatu. Vergine Santa Adumbrada.

Gosos. Alla tenera formella di N.S. di Bonacatu salgono affettuose lodi in sardo

Imagine istimada chi ancora cunservamos dogn’annu la veneramus accurrinde in custa contrada cherindela tramandada a sa zente benidora (strofa 14).

I Gosos de Nostra Signora de Bonacatu, composti per la solenne incoronazione, ci parlano dell’effigie che da secoli protegge non solo il popolo bonarcadese, ma tutti i sardi. L’immagine di cui essi ci parlano è quella de sa Vergine Santa, adumbrada in su chelu, terra e mare […] de Bonacatu giamada, come canta sa torrada degli antichi gosos. Ritratto della Vergine Madre che abbraccia e stringe a sè il bambino Gesù che, a sua volta, accarezza il volto della mamma. Immagine di accoglienza, meglio di bonu acatu.

Questo titolo, come scriveva il priore di Bonarcado Sebastiano Frongia, è tipicamente sardo, anche se di radice latina, per cui si interpreta Madonna della Buona Accoglienza (tratto dal volume Nostra Signora di Bonacatu e il suo Santuario in Bonarcado). Accoglienza materna per s’anima chi est tribulada e de nois devotos (strofa 5). Accoglienza radicata nel nostro animo, ma anche curata e sviluppata (in particolar modo in questo caso) da sos padres benedettinos che Zertu po supernu istintu a sos sardos pellegrinos affresint custu dipintu (strofa 9).

Faccio riferimento a questa strofa dei gosos dell’incoronazione, per ricordare l’importanza dell’accoglienza nella regola monastica benedettina la quale specifica che Tutti gli ospiti siano accolti come Cristo (Regola di San Benedetto 53,1). Presenza speciale quella camaldolese, grazie a cui, nel paese di Bonarcado, Sa bell’arte de Toscana ha costruttu monumentos e sos pius bellos portentos a sa fide cristiana ma sa cara tua galana ceselladu hat in bon’ora (strofa 10).

Lo sfondo descrittivo della versione antica dei gosos è glorioso: In sos chelos coronada sos Santos cun allegria cantan in chelu gloria a sa Virgo Immaculada (strofa 2). La gloria della Vergine consiste nell’azione materna di intercessione, nel suo essere ponte fra cielo e terra descritto dall’autore con l’immagine de s’Arca de su Testamentu […] chi dae su chelu est calada, portat in issa inserrada sa cascia de grazias pienas (strofa 3).

Nonostante la grandezza del suo ruolo, Maria viene sentita vicina come donna che conosce le sofferenze del diventare mamma. Colpisce la strofa 4 della versione antica che ricorda questo momento della vita umana grande e terribile: De parteras sezis giamada pro remediu e meighina: aggiudade sa mischina parturente tribulada; de dolores cautivada non zessat de lagrimare. Non possiamo non notare questo rimando ad Ap 12,1 2, dove si parla della donna vestita di sole che era incinta, e gridava per le doglie del parto. L’autore sembra dirci che solo chi ha sperimentato quel dolore e quella gioia può comprenderli.

Il ruolo di intercessione materna di Maria viene accentuato con espressioni di invocazione che troviamo a conclusione di ciascuna strofa della versione antica: consolade s’alma mia (strofa 2); liberadenos de pena (strofa 3); chergiades pro nois pregare (strofe 4 e 5); alcanzadenos favores (strofe 6 e 8); pregade pro sos peccadores (strofa 9).

A queste, quasi come un cappello, segue sempre de Bonacatu giamada. La bellezza di quest’espressione sta nel fatto che ciascuno di noi possa dire con confidenza a Maria: dal momento che sei chiamata mamma accogliente, consolaci quando siamo tristi, liberaci dalle pene, prega per noi e ottienici favori, anche se siamo peccatori.

I gosos sono belli per le espressioni poetiche, eppure sono sempre sintesi di una situazione concreta, vissuta, reale. La festa di Nostra Signora di Bonacatu cade, quest’anno, in un periodo particolare: la riapertura delle scuole, resa ancor più delicata dalla pandemia. È l’occasione in cui tutti insieme: genitori, bambini, ragazzi, insegnanti e personale delle scuole possiamo pregare così: In ora perigulosa invincibile eroina sa bestia serpentina destrue vittoriosa tue solu gloriosa podes esser binchidora (strofa 19).

A cura di Giovanni Licheri
Pubblicato su L’Arborense n.31/2020