XXXIII Domenica del Tempo Ordinario. L’approfondimento della Parola

La logica del profitto porta a valutare gli altri e noi stessi come merce di scambio

Siamo davanti a una parabola notissima e utilizzata molto spesso per valorizzare le capacità personali di ciascuno. Scriveva Rinaldo Fabris nel suo commento al vangelo: la lettura di questa parabola è fortemente condizionata da tendenza interpretativa che esprime molto bene l’etica della borghesia commerciale e imprenditoriale. I talenti sono le qualità umane e anche i beni che si devono far sfruttare al massimo; quello che viene condannato è il rappresentante della pigrizia fatalistica e improduttiva.

Rischio che abbiamo corso tutti, cercando di leggere il brano come una sorta di invito a tener conto delle proprie capacità e investirle in qualcosa di utile. Più che dai talenti è meglio partire dal rapporto tra padrone e servi che si evince nei dialoghi conclusivi. Mentre i primi due sono buoni e fedeli e hanno un atteggiamento simmetrico, il terzo attira l’attenzione del lettore: è su di lui che si dilunga il racconto di Matteo. Nelle sue parole e in quelle rivoltegli dal padrone si manifesta una relazione di paura, di contabilità spietata, di distanza abissale, di diffidenza.

Tutti atteggiamenti che non possono in alcun modo nutrire un rapporto e renderlo sereno. Le parole del servo evidenziano come è il padrone, il suo padrone, il concetto che ha di lui. L’atteggiamento del terzo è caratterizzato dalla mancanza di fede che sposta le montagne, come ha detto Gesù. Lui nasconde il talento per paura di perderlo e, soprattutto, per paura del padrone.

L’accento negativo del finale (una condanna terribile di esclusione) è il frutto della sua paura, proprio come l’esclusione dal banchetto delle cinque vergini era causata dalla loro insipienza.

A cura di Michele Antonio Corona

Pubblicato su L’Arborense n.39/2020