IV Domenica di Avvento. L’approfondimento della Parola

Volevi costruirmi una bella casa, io ho invece pensato per te una discendenza.

La profezia di Natan, o meglio di Dio, gioca totalmente il messaggio intorno alla parola bayit. Essa significa in primo luogo casa (da cui deriva il nostro baita), ma anche casato, discendenza, prole. Con la parola più semplice del vocabolario ebraico, viene espressa la promessa maggiore di Dio a Israele, precisamente al suo re rappresentativo, Davide.

Se il giovane sovrano di Israele cerca di pulirsi la coscienza con la costruzione di un tempio per accreditare la propria supremazia sulle famiglie di Giuda e Israele, Dio si ritrae da essere posseduto e rinchiuso in un edificio che fa onore solo alla reggia del re. Dio non può essere usato né strumentalizzato per i propri fini. Dovremmo impararlo una volta per tutte!

Quando si cerca di afferrare Dio e di tenerlo a bada, lui si ritrae. I rabbini, in modo plastico, dicevano di Dio e della sua Parola una metafora schietta: sono come anguille; più le stringi e le afferri, più scappano. Esempio valido per ogni relazione, per ogni amicizia, per ogni rapporto: nessuno (si spera!) ama essere rinchiuso in una gabbia, ma ogni relazione diventa ossigenante quando aiuta l’altro a esprimersi per ciò che è nel profondo. Ecco allora il ganglio fondamentale della prima lettura è proprio questa apertura totale di Dio verso il casato, davanti alla chiusura offerta a Dio da Davide in una casa.

Questo capovolgimento può avvenire solamente nella sanificazione del rapporto tra Dio e Israele/Giuda che si attua in rapporto tra padre e figlio, cioè in un rapporto autenticamente genuino, in una relazione che sa cosa significano le avversità e le intimità. Non vogliamo edulcorare i rapporti familiari, nella loro natura conflittuali-educanti, ma segnalarli come espressione della complessità della vita, della sua pluriformità, della gamma di colori dell’esistenza umana.

Di fronte a questa bellezza cromatica della vita il salmo si apre a una lode (regale) di ampio respiro: Canterò per sempre l’amore del Signore. Quando si sperimenta l’amore, niente rimane come prima, niente può essere paragonato al tempo in cui l’amore non ci aveva ancora abitati. Chi non ama, comprende sempre in minima parte, poiché non riesce a percepire tutte le note della melodia, a vivere in completezza le varie sfere dell’esistere. Paolo, ai romani, scrive del grande mistero di Gesù Cristo, della sua attesa, del dono di riceverlo. Nel tempo di Avvento tutto ciò ci dona vigore, respiro, freschezza nel discepolato.

Cosa dire in questa IV domenica alla comunità cristiana? Che Dio non ci dona un luogo, ma un ventre, non una casa ma un casato, non una dimora arroccata ma una redenzione aperta. Siamo davanti a una buonissima notizia. La nascita del Figlio ci apre uno scenario insperato: chi poteva pensare a qualcosa del genere? Dio non si è solo interessato all’umano, ma ha anche coinvolto l’umano nel suo piano di salvezza.

Maria è il rannodo tra la grandezza dell’Onnipotente e l’umiltà della giovinetta, tra l’aridità di Davide e la fecondità della Parola del Padre. L’affidamento di Maria non è un atto di semplice devozione a un potente, ma è il riconoscimento dell’amore di cui Maria si è sentita inondata. Quando si tratta di amore non si può ragionare più con logiche matematiche, economiche, logiche.

A cura di Michele Antonio Corona

Pubblicato su L’Arborense n.44/2020