IV Domenica del Tempo Ordinario. L’approfondimento della Parola

La certezza del discepolo: Tutto posso in Colui che mi dà la forza

Nei brani proposti dalla liturgia domenicale, la richiesta di una sequela seria e costante è altissima, seppure la Parola proclamata sia aspra ed esigente. In qualche modo, questa necessità sempre sovrumana, irraggiungibile, utopica. Possiamo essere davvero coerenti? Riusciamo a vivere una vita in cui dire e fare vanno nella stessa direzione sempre? Da dove recuperare una tale forza d’animo e pretendere da noi stessi ciò?

Chi ha letto il romanzo di Grazia Deledda, La madre, ricorderà la profondità dei pensieri del prete Paulu quando si analizza come diviso tra dovere e piacere, oscillando continuamente tra desideri, incertezze, paure e angosce. Tuttavia, proprio questa distonia interiore lo rende sicuro di essere amato e salvato oltre le sue forze e i suoi meriti.

Paolo scrive ai corinzi col cuore e con la tenerezza di un padre: la sua preoccupazione è che i suoi figli non si ritrovino divisi, lacerati, strappati interiormente. Il suo appello è all’unità anche interiore e personale. Invoca su loro pace, unione, comunione, serenità. Potremmo rassegnarci a una vita mediocre, provvisoria, punteggiata da continue infedeltà e farci l’abitudine. A Paolo preme che le comunità cristiane non tirino a campare, non vivacchino più o meno bene, non si accontentino di sopravvivere, ma vivano appieno.

Ecco che il brano evangelico ci mostra Gesù Cristo e lo stupore dei suoi contemporanei: è uno che insegna in continuità con la vita e vive ciò che insegna. Durante l’ordinazione diaconale viene detto al diacono: credi ciò che insegni, insegna ciò che credi, vivi ciò che insegni. Questa è la pista per entrare a contatto con la Parola vera, che è Gesù Cristo. Senza lui non possiamo davvero credere, insegnare e vivere nulla.

Ma con lui, che è il profeta ultimo e definitivo al quale prestare ascolto, come annunciato dalla prima lettura, è possibile avere continuità di vita, sentirsi salvi a partire dal perdono di Dio, sapersi amati e guariti. L’uomo posseduto, narrato dal vangelo, è diviso in se stesso, strattonato e dilaniato: Gesù lo guarisce. Anche Mosè ci offre nella sua vicenda la testimonianza di un profeta e condottiero che si trova spesso in crisi davanti alla missione che lo trascende e lo supera, anche a livello umano. Dio prende il carico del popolo e della salvezza, ma non senza l’impegno e la fiducia del balbuziente.

Se l’uomo sa di balbettare, Dio parla; se l’uomo ha coscienza di essere dilaniato, Dio può guarire e fare unità. L’unica via per questa guarigione è l’ascolto della sua voce. Samuele ce lo ha ricordato domenica scorsa: Parla Signore perché il tuo servo ti ascolta. Dunque non una condizione sociale (sposati, celibi o nubili; uomini o donne; laici o ordinati; suore o diaconi; anziani o bambini), ma una stessa scuola di discepolato che non può che partire dalla Parola pronunciata da Dio.

Infine, il salmo apre un ulteriore spiraglio sul tempo in cui ascoltare la voce di Dio: oggi! Non si può rimandare più, poiché bisogna agire comportandoci degnamente, senza deviazioni. Affidiamoci nelle mani di chi è degno di fede e di colui che crede in noi, come un padre amorevole ed esigente.

A cura di Michele Antonio Corona

Pubblicato su L’Arborense n. 3/2021