II Domenica di Quaresima. L’approfondimento della Parola

Nel segno di Abramo che riebbe Isacco, il Padre ci dona il suo amato Figlio. 

Ancora un volta Gesù si ritira in disparte, ma non più solo. Chiede, a tre dei primi quattro discepoli chiamati, di seguirlo su un alto monte. L’altezza del promontorio è data dallo sguardo trasfigurato di chi è innamorato di Gesù e di lui, che è innamorato del Padre.

L’amore trasforma! L’amore fa rileggere la storia e la propria vita e permette di vedere oltre il limite dello sguardo naturale. Chi ha sperimentato o sperimenta l’amore, sa bene cosa significhi vedere in profondità le cose e scorgere nelle persone la bellezza.

Marco, nel suo racconto, trasmette la testimonianza di chi ha vissuto quella esperienza estatica con Gesù e si è reso conto di non aver capito immediatamente il vero senso di quella visione e di quelle parole giunte dalla nube. Gli apostoli e l’intera comunità dei discepoli dovrà attendere la luce della risurrezione per comprendere il chiarore della trasfigurazione.

Solo con la luce del mattino di Pasqua è possibile comprendere le parole di Gesù e l’ampiezza della sua rivelazione. Le goffe parole di Pietro vogliono convincere il Maestro che quella visione possa essere la meta definitiva della sua missione. In altre parole, la proposta di Pietro si pone come alternativa alle lusinghe del diavolo nel deserto e a ciò che Simone aveva detto al Maestro, quando aveva rivelato di dover morire.

Sembra dire a Gesù: lascia perdere il cammino verso la croce e la morte! Stiamo qui, in questo paradiso, in questa situazione che è fuori e migliore della realtà. Ma il Figlio capisce le parole del Padre: ascoltatelo! Lui è la parola definitiva, il progetto che si realizza, il segno incancellabile dell’amore per l’uomo.

Quella visione deve passare per le strade della Galilea fino a Gerusalemme; la trasfigurazione non si attua sul monte Tabor, ma sul Golgota. Il racconto di Marco ha fortissimi paralleli con la sua descrizione della preghiera nel Getsemani: stessi discepoli testimoni, soli e in disparte, il rapporto col Padre, l’appesantimento dei loro occhi, lo stile passeggero di entrambi i momenti.

Eppure, sul Tabor lo scenario è luminoso e positivo, nel Getsemani è rabbuiato e drammatico. Ciò che la prova per Abramo aveva risparmiato al patriarca, ora il Padre lo porta a compimento col Figlio. Il testo di Gen 22 ci dice fin dal primo versetto che il comando ad Abramo è solo un test, un modo che il patriarca ha per verificare la propria fiducia in Dio.

Il racconto ha un esito scontato per noi, visto il primo versetto, ma non per il patriarca. Così, se Abramo riceve nuovamente il figlio, quello amato, Isacco, per una seconda volta, il Figlio del Padre dona la sua vita una volta per tutte per amore del Padre e amato dal Padre. Paolo, nella sua lettera ai Romani, scrive con chiarezza che quella morte è per la giustificazione e non per la condanna. La morte del Figlio è stata il sigillo d’amore della volontà di Dio di salvare e non condannare, di guarire e non affliggere, di liberare e non incatenare.

Dunque, col salmista possiamo dire: Adempirò i miei voti al Signore in mezzo a te, Gerusalemme, luogo del dono totale del Figlio per tutti noi.

A cura di Michele Antonio Corona

Pubblicato su L’Arborense n.7/2021