Il Penitenziere. Intervista a don Carlo Pisu.

Per parlare di perdono e di misericordia e approfondire il sacramento della Riconciliazione presentato nelle sue tre forme rituali, abbiamo intervistato mons. Carlo Pisu, ottantenne, sacerdote da 55 anni e dal 2013 Canonico Penitenziere del Capitolo Metropolitano, unico sacerdote che esercita questo ruolo nella nostra Arcidiocesi.

Quale ufficio esercita il Penitenziere e qual è il suo ruolo nella vita della diocesi?

Il penitenziere è un canonico del Capitolo che ha la facoltà ordinaria, conferita dal vescovo e non delegabile, di assolvere dalle scomuniche latae sententiae, cioè secondo una specifica modalità senza bisogno che ci sia un atto esterno che le proclami, che si presentano nell’anima di chi ha commesso un peccato grave che offende Dio.

Ci sono dei peccati, quindi, che può assolvere solo il Penitenziere?

Sino a qualche tempo fa per poter ricevere il perdono dal proprio confessore da peccati gravi, (per esempio l’aborto) era necessario essere prima assolti dalla pena della scomunica dal Penitenziere, essendo questa una sua esclusiva prerogativa. Considerando che in certe particolari situazioni tale procedura sarebbe potuta risultare difficile da praticare e per trovare una via più facile per essere abbracciati dalla misericordia di Dio, già mons. Sanna aveva dato facoltà a tutti i sacerdoti della diocesi (nel Tempo di Quaresima e di Pasqua) di poter assolvere questi peccati. Durante l’anno del Giubileo della Misericordia papa Francesco ha concesso tale facoltà ai sacerdoti della Chiesa universale e nella Lettera apostolica Misericordia et misera l’ha estesa nel tempo.

Papa Francesco ha affermato che il Sacramento della Riconciliazione è un Sacramento di guarigione. Quali sono le ferite di peccato che segnano la nostra società e le nostre comunità?

Le ferite di peccato che ricorrono più spesso sono quelle che toccano il punto essenziale della fede cristiana. Allo scriba che chiede quale sia il più grande comandamento tra gli oltre seicento precetti della Legge ebraica che dovevano essere osservati, Gesù risponde non scegliendone uno in particolare ma sintetizzandoli nell’amore al Signore Dio con tutto il cuore, l’anima, le forze e amare il prossimo come se stessi. Con la passione Gesù ha potenziato, ma anche reso più impegnativo, il dovere di ogni buon cristiano, mostrandoci come quasi non sia più sufficiente amare il prossimo come noi stessi ma amarlo come lui ci ha amato, dandoci tutto se stesso. Molto spesso il fedele si accusa di tanti peccati pur gravi e importanti da essere assolti ma non si sofferma sulla capacità di perdonare. Nel discorso della montagna, al capitolo V del vangelo di Matteo, Gesù invita ad amare il nemico, fare del bene a chi ci fa del male, pregare per colui che ci perseguita. I fedeli qualche volta fanno fatica ad accettare le proposte di Gesù; è più facile incoraggiare a offrire la loro preghiera se non direttamente per il proprio nemico, almeno a Dio Padre perché si ponga come mediatore. Compiuto questo primo passo ci si può meglio disporre a ricambiare col bene il male ricevuto e ad amare i propri nemici. Questi sono i peccati più gravi nonostante si pensi, forse per la vergogna e l’umiliazione che qualche volta si prova a confessarli, che invece lo siano quelli contro il sesto comandamento. 

Da come spiega le cose, si evince come ci sia bisogno di formazione tra i fedeli. Oggi la catechesi sul sacramento della Riconciliazione è esclusivamente rivolta alla preparazione dei bambini alla prima confessione; sarebbe necessario, secondo lei, impostarla in maniera differente?

In passato si tenevano gli incontri di catechesi in modo che non si incorresse nell’ignoranza incolpevole ma tutti fossero messi nella condizione di istruirsi. Purtroppo molti fedeli si avvicinavano timidamente al sacramento della Riconciliazione perché spesso i sacerdoti, invece di parlare della misericordia di Dio, apparivano come giudici pronti a bastonare e imporre penitenze insostenibili. Una catechesi permanente dovrebbe guidare i fedeli a vivere nella gioia il dono della misericordia di Dio. Quello della Confessione è diventato un sacramento difficile perché molti reputano umiliante doversi inginocchiare davanti a un uomo ed esporre le proprie debolezze, preferendo confessarsi direttamente con Dio. Questa esigenza potrebbe essere anche considerata ma Gesù, quando dopo la resurrezione ha infuso lo Spirito Santo, ha dato agli apostoli il potere di perdonare i peccati indicando dei mediatori che garantiscano la certezza che il perdono sia stato concesso. Come sacerdoti dobbiamo avere la forza e il coraggio di dire ai fedeli che facciano una confessione integra dei propri peccati pentendosi e proponendo sinceramente di non peccare più e riconoscendo di non aver risposto con amore all’amore. Purtroppo questo spesso non avviene.

In questo tempo particolare alcuni parroci hanno chiesto all’Arcivescovo di poter utilizzare la terza forma della confessione, quella comunitaria. Che ne pensa a proposito?

Finché è possibile si rimanda alla confessione individuale, la modalità più normale e più importante, un obbligo per tutti come precetto della Chiesa. Si possono presentare delle circostanze nelle quali attuare la terza forma dell’assoluzione generale, a cui deve seguire appena possibile quella individuale; nel corso della storia ci sono state varie proposte per come e quando poterla utilizzare; qualche volta, per incomprensioni o per la sua facilità nell’applicazione, molti hanno abusato di questa facoltà. L’attuale normativa pastorale indica che tale forma venga osservata soltanto in circostanze di estrema difficoltà e necessità e dopo avere ottenuto il permesso del vescovo diocesano.

Celebrarlo con la terza forma potrebbe riavvicinare le persone al sacramento della Riconciliazione facendo capire che la Chiesa ha a cuore che il fedele sia in grazia di Dio?

Anche il peccato più segreto non è solamente personale ma in qualche modo rallenta la diffusione della grazia all’interno della comunità ecclesiale e del corpo mistico di Cristo; la Chiesa ha come suo compito quello di accogliere i suoi figli nel pentimento più sincero e più completo per riempire il vuoto che il peccato ha lasciato non solo nell’anima del peccatore ma nella stessa comunità. Sicuramente la Chiesa, come madre, potrebbe permettere una più facile applicazione di questo terzo modo di confessarsi anche rischiandone l’abuso ed è capitato che lo si sia attuato soltanto per comodità dei fedeli. Bisogna considerare che la terza forma non permetterebbe di raggiungere un’autentica conversione, in quanto per ricevere validamente l’assoluzione si devono creare delle premesse a livello personale da confermare con la confessione individuale.

 A cura di Maria Rita Quartu

Pubblicato su L’Arborense n.8/2021