XV Domenica del Tempo Ordinario. L’approfondimento della Parola

Il vangelo vuole annunciare una Parola per la tua vita. La vuoi accogliere?

Spesso ci scoraggiamo davanti alla diminuzione delle vocazioni di speciale consacrazione. Ma quanto dovremmo interrogarci sul nostro modo di vivere la nostra consacrazione battesimale?

Nella prima lettura l’ordine imposto da Amasia ad Amos di allontanarsi (vattene) e quello di Dio al profeta di andare (va’), sono espressi con la stessa forma verbale (in ebraico lek). Mentre uno indica allontanamento, espulsione, rifiuto, disprezzo nei confronti del profeta che da regno del sud si era permesso di salire al santuario di corte del nord, l’altro ha il senso dell’invio, della fiducia, del mandato, del conferimento di ruolo. Ecco il mistero e ministero della Parola: essa squarcia fin nel profondo la persona e le impone sobrietà.

La Parola è polivalente, è aperta, è carica di senso, interroga e investiga, pro-voca e in-voca. Il profeta Amos, uomo che non ha scelto autonomamente di profetizzare e che ha abbandonato il suo lavoro redditizio per dedicarsi ad annunciare al suo popolo e denunciarne i misfatti, non presenta sé stesso, né ha un annuncio proprio: è comunicatore di Dio, pur mantenendo il suo temperamento, la sua personalità, il suo carattere, le sue visioni personali.

Tuttavia, quel va’ detto da Dio capovolge totalmente l’esistenza e soppianta ogni relativismo, poiché smuove Amos da apatia, afasia, asfissia. Nel senso che al profeta (a ogni profeta) non è risparmiato il soffrire, il parlare, il respirare. In questi tre verbi si può comprendere il mandato di Gesù ai discepoli di andare a due a due. In primo luogo, il Maestro prevede la possibilità di rifiuto, di persecuzione, di negazione del loro mandato.

Spesso, anche nella storia, abbiamo detto troppe volte Dio è con noi, scegliendo di identificare Dio con un costrutto scelto da noi. Gesù, il Dio con noi, ha accolto la strada della sofferenza e del rifiuto per rendere ogni scelta ancora più libera. Il discepolo, come il profeta, non può che immergersi in questa possibilità. Il secondo verbo indica lo stile dell’andare per il mondo: non schiccherando, ma parlando. Il discepolo non dice qualcosa tanto per dire, ma si prepara bene e si interroga quotidianamente sul proprio modo di parlare. Non solo dire qualcosa, ma annunciare la salvezza, essere trasmettitori della Parola.

Parlare per dire il buon annuncio, parlare per mettersi in dialogo, parlare per fortificare la comunione. Parlare significa dare senso alla comunicazione trasversale che ci abita e che ci tocca. Infine, il fuggire l’asfissia, cioè il non avere più la capacità di respirare. Con questo verbo si intende tutta la capacità di autonomia della propria esistenza, la responsabilità personale, la capacità di essere responsoriali alla Parola divina. Dopo aver visto i tanti affetti da Covid-19 che sono rimasti uniti al respiratore artificiale, questa esigenza ci può essere più chiara. Siamo davanti a una pagina che cuce sulla nostra pelle l’esigenza del discepolato autentico, che trova la sua origine in Gesù pathos, parola e alito del Padre.

L’inno della prima Chiesa che la lettera agli Efesini ci propone è la versione lirica/ecologica (poesia e preghiera) del ringraziamento da rivolgere al Signore.

A cura di Michele Antonio Corona

Pubblicato sul n. 25/2021 de L’Arborense