Il commento al Vangelo della XXIV domenica del T.O.

È una grande domanda sull’identità, quest’oggi. Ma non illudiamoci. Non si tratta esattamente dell’identità di Gesù, o del fatto che sia più o meno importante che gli diano risposte su cosa pensa la gente o cosa pensano i discepoli. È l’esatto contrario. Sapere cosa pensano loro, sapere cosa penso io e cosa pensi tu, serve alla nostra identità.

Non c’è niente da fare: man mano che tu incontri e conosci Cristo, tu cominci a incontrare e conoscere te stesso e a renderti conto di chi sei davvero, della tua identità. Forse man mano che la sua luce invade la tua vita, tu resti sbalordito da ciò che in essa viene illuminato e che prima non eri in grado di vedere. Ma poi, capisci che la tua identità parte dallo sguardo del Signore su di te. E questo sguardo è sempre lì, ed è uno sguardo d’amore.

Allora capisci che lui è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, perché tu, sei tu. E dopo capisci ormai con tutta la tua interiorità, cose nuove non tanto su di Lui, quanto sul suo agire nella tua vita, su quella modalità con cui Lui ti ama, che appartiene al tuo nome, scritto sul palmo della sua mano.

Ed ecco: ammiri sempre di più ciò che Egli è, e… ammiri sempre di più ciò che tu sei. Vuoi bene a te stesso, perché sai di essere amato. Possano le parole che Francesco ripeteva a La Verna, dopo aver ricevuto le stimmate, essere guida per la nostra vita. Francesco non si sentì arrivato, quando Cristo gli concesse il dono della perfetta somiglianza con lui nella passione.

Anzi, da lì sgorgò la domanda: Chi sei tu? Chi sono io? Quanto più infatti la nostra vita cammina segnata dagli incontri sempre più profondi con il Dio vivente, tanto meno capiamo e tanto più frequente diventa anche per noi la stessa domanda. Solo in Lui noi troviamo noi stessi. E la risposta su di Lui, risponde alla domanda su di noi. Senza di Lui non solo non possiamo fare ma non possiamo nemmeno essere nulla.

E Gesù ordina una cosa incomprensibile, quella di non parlare a Lui di nessuno. Strano, no? Eppure… quando troviamo la nostra identità, il nostro vero in Lui, non c’è più bisogno di parlare, perché parla la nostra vita, pur nella sua debolezza. Anzi, alle volte, quando apriamo la bocca, facciamo pasticci, proprio come Pietro, che, preso dall’ansia, non accetta il pensiero sul Signore che soffre e che muore.

E anche questo fatto, duramente rimproveratogli da Gesù, mostra il suo attaccamento al Maestro. Mostra quindi, che Pietro non vede più la propria vita, se non con Lui, ed è per questo che rifiuta la sofferenza e la morte del Signore, come ognuno di noi istintivamente rifiuta il pensiero del dolore e della morte propria. La croce invece, per essere la nostra salvezza, è tanto più integrabile nell’esistenza di ciascuno, quanto più siamo presenti a noi stessi e ci riconosciamo in Dio. A noi dunque camminare in una sempre più profonda comunione con tutto il mondo, tutti i giorni della nostra vita, fino al Giorno dell’Eternità.

Agata Pinkosz,

missionaria dell’Immacolata -padre Kolbe