Morale. Liberi fino alla fine

Ha raccolto più di 850 mila firme la campagna referendaria per l’abolizione del reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), con l’esclusione di minori, infermi mentali e persone il cui consenso fosse estorto con la forza. Per questa via si vorrebbe rendere legale l’eutanasia con lo slogan liberi fino alla fine. Ancora una volta si fa leva su un valore oggi tanto sentito quanto mal compreso: la libertà.

Uno dei motivi fondamentali del rispetto che si deve all’essere umano è proprio la sua libertà, cioè la capacità di determinare razionalmente la propria condotta, di dare forma al corso della propria vita, controllando e orientando desideri, sentimenti e inclinazioni, realizzando una visione ideale di sé. Concepire però la libertà come assoluta, rappresenta una contraddizione insanabile, perché senza un riferimento valoriale le manca una direzione, un senso, una razionalità; e la cosa più irrazionale è una libertà che si rivolge contro sé stessa (scegliere la schiavitù) o contro la sua possibilità d’essere, la vita del soggetto che la esercita (scegliere la morte).

In altre parole la libertà è certamente un valore, ma non determina gli altri valori umani, piuttosto è chiamata a sceglierli responsabilmente sotto la guida della ragione. Da un punto di vista logico prima della libertà risulta fondamentale il valore della vita, in quanto è la possibilità che ogni altro valore sia espresso e realizzato, perché la vita si identifica con la persona stessa. La morte invece è l’annullamento di ogni valore umano, che non può esplicarsi senza l’uomo che lo incarna. Neppure si deve dimenticare che non è in ballo solo la libertà di chi chiede l’eutanasia, ma anche quella di chi, con azione diretta o con un’omissione, provoca intenzionalmente la morte. La richiesta o il consenso del primo non elimina la responsabilità morale del secondo. Se è assurdo e infruttuoso voler imporre il bene a una persona, lo è pure fargli del male con il suo consenso!

 Libertà nella fragilità umana

La pandemia ci ha mostrato chiaramente l’interdipendenza gli uni dagli altri. Dobbiamo riconoscere che autonomia e dipendenza non sono per l’uomo inversamente proporzionali. La fragilità non è un occasionale evento della vita che si possa eliminare totalmente, ma una forma strutturale della sua esistenza. La correlativa dipendenza dagli altri e dal mondo è per ogni uomo condizione ontologica e costante che fa scendere il soggetto dal piedistallo dell’autosufficienza, esponendolo al duplice vincolo, attivo e passivo, dell’aiutare e dell’essere aiutato (L. Alici). Siamo tutti segnati da limiti e deficienze, tutti diversamente abili, più o meno malati, in qualche modo e sempre bisognosi degli altri e per questo anche chiamati a prenderci cura del prossimo.

La solidarietà umana ha qui il suo fondamento esistenziale ed esprime il sostegno vicendevole, la mutua assistenza che rende solido, compatto e forte, il corpo sociale. L’uomo è costitutivamente e sempre in relazione con gli altri. Nessun essere umano è un’isola, in nessuna circostanza; dal momento del suo concepimento fino alla sua morte ciascun uomo è inserito in una rete relazionale e in un processo di interazione imprescindibili e ineliminabili. L’identità stessa di ciascun individuo è costituita anche dalle sue relazioni con gli altri, per cui, in realtà, non appartiene esclusivamente a sé stesso e non può recriminare un’autonomia assoluta. La libertà personale di ciascuno, la sua capacità di valutazione e di scelta (anche quando riguarda sé stesso) vengono forgiate, condizionate, sollecitate, responsabilizzate anche dagli altri.

Il ruolo della cultura e delle istituzioni

La considerazione e le aspettative degli altri ci condizionano nel bene e nel male: se siamo amati ci sentiamo amabili, se siamo rispettati, apprezzati, valorizzati riusciamo a percepire la nostra dignità e riusciamo a dare il meglio di noi. Quando, al contrario, chi ci sta vicino, la cultura e le istituzioni sociali comunicano un giudizio di indegnità e inutilità oppure, incapaci di sopportare la nostra sofferenza, semplicemente confermano quel giudizio che da malati e disabili attribuiamo a noi stessi, diventa difficile vedere alternative migliori che farla finita. In un contesto simile una legge che permetta di togliere facilmente il disturbo sarebbe uno spazio che aumenta la libertà o la condiziona fortemente in senso negativo?

D’altra parte chi decide quali sono le condizioni per cui è possibile ottenere l’eutanasia? Una malattia fisica o anche psicologica e di quale entità? Terminale o solo diagnosticata? Una scelta filosofica? L’età avanzata e la stanchezza di vivere? L’aver commesso un crimine efferato? A queste condizioni si possono aggiungere scopi meno espliciti, ma concomitanti e già prospettati come il risparmio sulle spese sanitarie o il trapianto d’organi.

Quale realtà nelle altre nazioni?

L’esperienza dei Paesi europei che hanno legalizzato l’eutanasia dimostra come sia stato superato ogni limite inizialmente posto per combattere possibili abusi. Si è concessa a persone con malattie relativamente leggere o appena diagnosticate o con sindromi depressive; a persone che non l’avevano chiesta ma si trovavano in situazioni simili a chi la chiede; a minorenni, che non riteniamo maturi per decidere su molte cose, ma sulla propria morte sì, fino a comprendere infanti e neonati.

Anche in altre Nazioni si sono lasciati morire bambini gravemente malati, contro il volere dei loro genitori e nonostante la disponibilità di cura da parte di diverse strutture sanitarie, nel nome di un loro migliore interesse, evidentemente stabilito e imposto da altri. Il diritto di morire, reclamato come espressione della moderna e progredita civiltà, si trasforma, presto o tardi, in un dovere di morire (A. Vitale). La richiesta di eutanasia è quasi sempre motivata da una situazione di sofferenza, la quale condiziona fortemente la libertà.

Essere liberi fino alla fine nel suo significato vero e benefico significa dunque essere sgravati dal dolore fisico e psicologico, liberati dalla solitudine affettiva, affrancati da una mentalità salutista che nella malattia e nei limiti vede la fine della dignità personale, liberi per vivere ancora, con la migliore qualità della vita possibile, ricevendo e donando amore, fino alla morte, quel male massimo e inesorabile che, se dobbiamo comunque accettare, non possiamo mai infliggere direttamente.

Stefano Mele, docente di Bioetica nella Facoltà Teologica della Sardegna 

Pubblicato su L’Arborense n. 31/2021