Storia. Le nostre radici.

La Sardegna fu conquistata dai romani nel 238 a.C. I testi epigrafici e i resti monumentali raccontano quali fossero le pratiche religiose della popolazione sarda e quando il vangelo si diffuse. Gli antichi abitanti della Sardegna tributavano onori ai loro dei e al dio eponimo dei Sardi nuragici, venerato presso il tempio di Antas: Sardus Pater. La religione fenicio-cartaginese influì sulla protostoria della Sardegna. Roma tutelava le tradizioni dei paesi soggiogati e non limitava le libertà religiose, salvo per motivi statali.

L’imperatore Gallieno (253-268), oltre alla riforma dell’esercito attuò, prima della persecuzione dioclezianea, un periodo di coesistenza pacifica fra Stato e Chiesa, non solo di fatto ma anche di diritto, in cui il cristianesimo, come da tempo il giudaismo, visse come religio licita nell’interno di un impero sostanzialmente pagano: fu il primo riconoscimento ufficiale della Chiesa. I cristiani divennero cittadini a pieno diritto. Da allora, essi furono largamente presenti nell’esercito romano e nella guardia imperiale. Indi, vennero accusati di impedire, con la loro presenza, il manifestarsi dei responsi divini attraverso le viscere degli animali sacrificati. La prima attestazione sicura della presenza di cristiani in Sardegna risale all’ultimo decennio del II secolo.

Essa è riferita da un libro, conosciuto col titolo di Philofosophumena, attribuito al presbitero romano Ippolito; lo stesso che, secondo un’informazione del Catalogo Liberiano, fu relegato in Sardinia, insula nociva, insieme col pontefice romano Ponziano e vi morì. Nel libro si racconta anche che Callisto, già cristiano ma ancora schiavo venne condannato alle miniere di Sardegna (eis métallon Sardonías), nei pressi del tempio di Antas. Nel 190 d.C. sono attestati in Sardinia un numero imprecisato di cristiani provenienti da Roma, poiché damnati ad metalla. Da una lettera inviata, nel 590, da papa San Gregorio Magno (540-604), e indirizzata a Hospitone, Barbaricinorum dux, affinché accogliesse benevolmente messaggeri (Dux Hospiton si era convertito al cristianesimo), sappiamo che il popolo sardo era ancora pagano, adoratore di pietre e feticci.

Il Cristianesimo era rimasto ai margini; non aveva fecondato lo spirito degli abitanti della Barbagia, i quali erano ancora immersi nella civiltà nuragica. La regione montuosa si era dimostrata, nei secoli precedenti, refrattaria all’introduzione di culti semitici e latini, nonostante l’imponente opera di colonizzazione da parte di Cartagine e Roma. Gli abitanti della Sardegna centrale erano anche diffidenti e ostili nei confronti dei bizantini, ritenuti colpevoli di una politica predatoria. Con l’intento di rendere effettiva la clausola del trattato di pace fra Bizantini e Barbaricini, che contemplava la conversione di questi ultimi al cristianesimo, il pontefice Gregorio I inviò nell’Isola sarda mons. Felice, vescovo di Porto, e il monaco Ciriaco, abate di S. Andrea al Celio per iniziare l’opera di conversione. Il paganesimo non era diffuso soltanto fra i Barbaricini ma anche in altre contrade.

Molti agricoltori idolatri si trovavano nei latifundia dei nobiles, e perfino nelle terre patrimoniali ecclesiastiche. Fra le clausole dell’accordo stipulato fra il magister militum Zabarda, che risiedeva a Forum Traiani (centro denominato Ydata Ypsitanà; venne elevato al rango di forum sotto Traiano) e il supremo capo dei Barbaricini, vi era anche quella che consentiva ai missionari di predicare il cristianesimo nei territori delle civitates Barbariae. Nelle altre parti della Sardegna, il Cristianesimo e, in particolare, i culti cristiani si erano diffusi sin dal secondo secolo, come documentato dai ritrovamenti archeologici che confermano le libagioni funerarie in aree cimiteriali. Rituali originati da costumi pagani, arricchiti di significati cristiani e di contenuti escatologici quali aspirazioni alla gioia celeste, mediante il concetto di ristoro fisico connesso con quello spirituale.

Per i primi cristiani, l’idea della morte perdette il senso lugubre che aveva presso i pagani. L’espressione del rimpianto della vita si trasformò in augùrio, che è invocazione di pace, sia per i defunti partecipanti al convito celeste, sia per i viventi, cui restava la pace della fede e il conforto della preghiera.

Questi concetti fecero parte dell’epigrafia cristiana. L’augurio di pace, già comune nella Sacra Scrittura, diffusissimo anche nella liturgia, non riguardava solo l’incolumità della tomba, come indicavano le epigrafi pagane (pax tecum aeterna), ma la felicità celeste. I cristiani definirono i pasti pagani refrigeria: rinfreschi per il corpo e sollievo spirituale. Il refrigerium, perciò, esprimeva un augùrio a dissetarsi alla fonte della vita. Le iscrizioni più usate erano: refrigeris in pace dei et tibi dominvs; spiritvm tvvm deus refrigeret. Questi culti sono rimasti nella memoria e negli usi popolari.

Giovanni Enna

Pubblicato su L’Arborense n. 36 del 2021