V Domenica di Pasqua: il commento al Vangelo

Il Vangelo 

Quando Giuda fu uscito [dal Cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». Gv 13, 31-33. 34-3


Il commento

Nel Vangelo di questa domenica ci troviamo di fronte al lungo e toccante discorso d’addio che Gesù pronuncia ai suoi Apostoli nella sua Ultima Cena.

Prima di pronunciarlo, e dopo aver previsto il tradimento di Giuda, Gesù attende la sua uscita dal Cenacolo e può iniziare a impartire le sue raccomandazioni. La morte in croce si avvicina e Gesù ne è pienamente consapevole. Non una morte onorevole ma infamante, destinata ai ribelli e agli schiavi e vietata ai cittadini romani. Nella cultura del suo popolo morire crocifissi decretava con certezza la maledizione divina. Il vangelo di Giovanni, invece, fa pronunciare a Gesù parole in controtendenza, egli pensa a sé stesso glorificato da Dio e con Dio.

Siamo lontani concettualmente dalla croce indecorosa da evitare a tutti i costi. Perché Gesù cambia così drasticamente questa prospettiva? La risposta più immediata è quella legata al sacrificio offerto per la nostra salvezza e questo è giusto. Ma si può integrare a questa anche un’altra interpretazione? Ho provato a capire il senso della parola glorificazione.

In una prima definizione alcuni dizionari definiscono questo termine col significato di farsi udire o meglio ancora farsi riconoscere. Il Maestro è colui che per primo si sacrifica, ci mette la faccia, diremmo oggi. Egli lo fa con un atto di amore che gli consente di essere visto, notato, riconosciuto ed elevato. Lo fa con assoluta mitezza e con parole cariche di perdono.

A questo punto assume pieno significato quello che dice successivamente e che dovrebbe essere la carta d’identità di ogni cristiano. Essere gloriosi significa farsi riconoscere unicamente dall’amore con lo stesso amore del Maestro che, per primo, si offre innocente alle ingiustizie del mondo. L’amore è la caratteristica vincolante per essere cristiani. È davvero singolare pensare come oggi, in tempi oscuri di conflitto e odio, alcuni uomini siano legati a simbologie religiose per evidenziare appartenenze religiose che appaiono ormai deformate e farisaiche. Patriarchi con croci, paramenti, candele e devozioni che si fanno riconoscere con i simboli cristiani esteriori.

Questi segni, però, assumono il loro vero significato solo se racchiudono nelle idee, atteggiamenti e condotte di vita il prerequisito dell’amore. Vale ancora oggi il vecchio e sempre attuale detto di sant’Ignazio di Antiochia: È meglio essere cristiano senza dirlo, piuttosto che proclamarlo senza esserlo. I cristiani più autentici non sono glorificati e resi visibili perché iscritti nel registro dei battesimi, o perché assidui frequentatori di luoghi di culto né tantomeno perchè ipocritamente equidistanti. Devono essere, invece, in grado di prendere posizione di fronte all’ingiustizia, essere solidali, onesti, liberi e coraggiosi. I discepoli autentici del Maestro spesso devono essere disposti a pagare a caro prezzo la loro coerenza col suo messaggio perché l’amore più elevato e puro è quello di chi è disposto a dare la vita.

A cura di Filippo Scalas, docente di religione

Pubblicato su L’Arborense n. 17 del 2022