Comunicazioni Sociali: l’appello di mons. Mura

Il lavoro precario riguarda oggi molte persone e, tra esse, i giovani sono una percentuale rilevante, molto più problematica nelle conseguenze perché frena le scelte future, comprese quelle matrimoniali. Parlare di giornalisti precari, di giovani col famoso tesserino in mano ma senza tutele, non appaia quindi irriguardoso nei confronti di altri lavoratori, piuttosto ne accentua le problematiche, evidenti o sottese, anche degli altri ambiti.

Mi ha sempre incuriosito e interessato verificare le firme apposte sugli articoli dei giornali o scoprire quelle dei filmati televisivi delle varie emittenti. Sono come l’autografo che sancisce contemporaneamente le scelte fatte e le parole o immagini utilizzate, con quella modalità creativa che, in pochi spazi o in pochi secondi, manifesta l’originalità dell’autore. Da quando però, parlando con gli stessi autori, ho scoperto che dietro quelle firme ci sono riconoscimenti di poco conto, soprattutto senza tutele, ho un moto di ribellione. Non oso parlare di sfruttamento, non voglio alimentare battaglie che hanno, a monte e come sempre retroscena personali o collettivi, ma certo sorprende, e in qualche modo indigna, una situazione che, oltre alle verifiche, richiede un rinnovato coinvolgimento di editori, testate, comitati di redazione, consulenti del lavoro, oltre alla legislazione, per affrontare e risolvere la situazione.

Tra l’altro, nel momento in cui si rileva la disaffezione verso i giornali, con impaginazioni che sembrano (e sono) costruite nelle redazioni, più che sul campo, mi pare difficile recuperare consenso verso le testate senza avviare (questa volta sul campo) la ricerca di notizie, di analisi e inchieste che, per essere davvero approfondite, talvolta anche nell’aspetto malavitoso, hanno bisogno di giornalisti liberi e tutelati, senza esporli a ricatti o a disorientamenti. Quando un articolo viene retribuito pochi euro, e chi lo scrive accetta queste condizioni pur di sopravvivere e poter pubblicare, a soffrirne sono in due: la dignità dello scrivente e la verità della notizia, quest’ultima quasi mai realmente approfondita.

Per questo non mancano, al di là delle firme eccellenti, mezze verità e mezze notizie. E la disaffezione aumenta, mentre il lavoratore rimane precario, anche se chiamato collaboratore. La firma e la conseguente visibilità possono sostituire la dignità? Credo di no, nonostante questi tempi ci diano, in ogni campo, risposte diverse. Perché non recuperare allora i contratti di praticantato? Perché le scuole di formazione, alle quali per parteciparvi bisogna versare un po’ di soldi, rischiano solo di essere fini a se stesse? Perché le redazioni, comprese quelle dei giornali diocesani, non favoriscono la formazione di coloro che vi scrivono, aumentandone la professionalità?

Se non vogliamo che a fare il giornalista serio, attento, preparato sia solo chi ha anticipatamente risorse proprie o familiari o magari sia erede di una famiglia di giornalisti, allora qualcosa deve cambiare. Ognuno (compresi gli enti professionali) faccia la sua parte, altrimenti, come avviene in altri ambiti, a diventare professionale ci sarà solo la precarietà.

+ Antonello Mura, delegato CES per le Comunicazioni Sociali