Omelia per la commemorazione dei fedeli defunti

02-11-2018

Cari fratelli e sorelle,
la parola di Dio che illumina la nostra celebrazione in questo luogo di memoria e di dolore, di tramonto alla terra e di nascita al cielo, può essere riassunta dall’esortazione alla speranza cristiana: speranza di contemplare il volto di Dio, secondo Giobbe (Gb 19, 27); di essere salvati dal peccato e dalla dannazione eterna, perché Cristo è morto per ogni uomo e ogni donna, secondo San Paolo (Rm 5, 6); speranza nella vita eterna, perché Dio Padre vuole che Gesù non perda nessuno di quanti gli sono stato stati affidati ma li risusciti nell’ultimo giorno, secondo l’evangelista Giovanni (Gv 6, 40). Ora, questa speranza cristiana non può fondarsi sul possesso di sicurezze materiali, stigmatizzato dalle parole di Gesù nella parabola del ricco che accumula beni senza posa: “stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. Quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc, 12, 20). A suo modo, la stessa sicurezza viene condannata anche dal cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2: “Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno”. La speranza cristiana, per converso, si fonda sulla certezza che quando non ci saremo più ci saremo ancora di più, e che la morte non è la scomparsa nel nulla, ma l’incontro definitivo con il Dio della vita. Essa viene alimentata dalla preghiera che mantiene viva nel nostro cuore e nel nostro affetto la presenza delle persone cha amiamo. Il cenotafio di Gialal Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo, dice: “Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che amano.”
Il morire, per noi cristiani, trova il suo ultimo senso nella vita e nell’insegnamento di Gesù. La Sacra Scrittura, infatti, ci assicura che “non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4, 15). I Vangeli riferiscono tre interventi miracolosi su altrettante persone morte: la figlia di Giairo (Mc, 5, 35-43), il figlio della vedova di Naim (Lc, 7, 11-17), l’amico Lazzaro di Betania (Gv, 11). Davanti a questi morti, Gesù mostra una grande compassione umana che sfocia nel pianto per la perdita dell’amico, ma, allo stesso tempo, si manifesta come il Figlio di Dio. E’ vero, infatti, che i morti che richiama in vita non risorgono definitivamente, perché la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Naim e Lazzaro moriranno di nuovo. Però, Gesù, richiamandoli in vita, anche se temporaneamente, rivela in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, ossia la risurrezione per la vita eterna in Dio. I miracoli di Gesù, secondo l’evangelista San Giovanni, sono “segni” che rivelano la sua natura divina, e, in questo caso, il suo potere sulla morte fisica.
Tuttavia Gesù, pur essendo di natura divina, soffre davanti alla morte e l’affronta in tutta la sua drammaticità. San Marco scrive che nell’Orto degli Ulivi, Egli “cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia anima è triste fino alla morte” (Mc 14, 33-34); “pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora” (Mc 14, 35-36). In altri termini, Gesù, provando l’esperienza della morte, col peso della sua umanità ne conferma la dimensione di oscurità e di dolore. Ma, allo stesso tempo, con la potenza della sua divinità la irradia con la luce dell’eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è l’alba d’un giorno senza tramonto, l’ingresso nella dimora della città eterna.
In definitiva, il passaggio reale di Gesù nella regione della morte trasforma il morire di tutti, perché oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Egli ci dona anche la liberazione dalla morte spirituale: “se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (…) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio” (Rm, 6, 8-10). “Cristo morì per i nostri peccati (…) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù” (1Cor, 15, 3; Rm 6, 11).
Cari fratelli e sorelle,
alla luce della vita e dell’insegnamento di Gesù, possiamo ben dire che la morte non è la caduta nel buio della disperazione, ma solo la messa da parte della lampada terrena, perché è arrivata l’alba dell’eternità. Per noi cristiani, la luce della fede illumina il pellegrinaggio terreno soprattutto nel momento della prova, e, per questa ragione, sull’esempio delle vergini della parabola evangelica, siamo esortati a mantenere le lampade sempre accese, perché non sappiamo né il giorno né l’ora della venuta del Signore (Mt 25, 13). Il momento più forte della prova è sicuramente la morte d’un nostro genitore, d’un nostro familiare, d’un nostro amico. Quando sentiamo dai media le notizie di morti in guerra, in incidenti stradali, in catastrofi naturali, in episodi inspiegabili di violenza omicida, commentiamo: “si muore”, parlando in forma impersonale. Quando, però, muore nostro padre, nostra madre, un nostro amico, la percezione del mistero e del dolore cambia radicalmente, perché siamo coinvolti in prima persona. Ma, proprio quando il lutto entra nelle nostre case dobbiamo dimostrare che la visione cristiana della vita e della morte motiva e orienta il nostro comportamento. Se la morte sopraggiunge alla fine d’una esistenza carica di anni e di gratificazioni, è facile considerarla come una conseguenza della natura umana e accettarla come il destino inevitabile. Se, invece, la morte colpisce i nostri affetti con la scomparsa prematura di familiari o amici, o peggio, ad opera della crudeltà e della malvagità dell’uomo, allora scatta la protesta e la ribellione interiore.
Ricordiamoci, tuttavia, che “il mistero della morte e del male nel mondo non lo risolviamo con un processo impossibile a Dio o con l’illusione di godere d’una vita senza dolore. Ci aiutano a viverlo in spirito di fede, invece, quelle persone che accettano la sofferenza dalle mani di Dio e che, con testimonianza splendida, la considerano un’esperienza di grazia. Certamente, la ragione umana non arriva a giustificare l’esistenza del male, ma ciò che non giustifica la ragione lo coglie la sapienza della fede. Di fatto, possiamo trovare miracoli di fede non sulle colline delle presunte apparizioni della Madonna ma sui letti degli ospedali, dove persone afflitte da malattie incurabili trovano il coraggio di benedire Dio. Sono questi i martiri dei nostri tempi, capaci di trasformare il letto in santuario, e di lodare il Dio della vita alla vigilia della morte. Di fronte a questa preghiera ogni forma di protesta diventa meschina, ogni scelta di fede è degna di ammirazione”.
Le parole di Gesù non invitano ad atteggiamenti difensivi e di paura ma a credere in lui. Rinnoviamo, allora, ancora una volta, la nostra fede nel Cristo risorto, annunciando la sua morte, proclamando la sua risurrezione, nell’attesa della sua venuta.
Amen.