Omelia per la Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Cimitero di Oristano - 2 novembre 2017
02-11-2017

Cari fratelli e sorelle,

siamo qui riuniti questa sera nel cimitero cittadino per celebrare l’Eucaristia e pregare per i nostri cari defunti, nello spirito della comunione dei santi, che unisce la terra al cielo, la Chiesa dei pellegrini sulla terra alla Chiesa dei beati nel cielo. La visita ai cimiteri, oltre che la partecipazione ai funerali di familiari, parenti, amici, è sempre una buona occasione per riflettere sul senso della vita e della morte, del tempo e dell’eternità. Con il salmo 90, noi preghiamo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo la sapienza del cuore” (v. 12). E S. Agostino ci ricorda che il primo giorno della vita è anche il primo passo verso la morte. Non possiamo sottrarci, quindi, alla necessità della riflessione sul mistero della morte, per trovare un senso al mistero della vita, ossia alle nostre azioni, ai nostri affetti, al nostro presente e al nostro futuro.

La Sacra Scrittura ci aiuta a riflettere sul tempo presente. Il Qoèlet scrive: “finché si resta uniti alla società dei viventi c’è speranza: meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, perché il loro ricordo svanisce. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole. Tutto ciò che trovi da fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare. Infatti l’uomo non conosce neppure la sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al laccio, l’uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui” (Qo, 9).

L’autore sacro, quindi, ci fa riflettere sia sul valore delle cose terrene che non durano, si corrompono, svaniscono, sia sul dovere di sfruttare bene il tempo che ci è concesso di vivere. Ci insegna che più che spendere parole per elogiare uno quando è morto è meglio impegnarci per aiutarlo finché è in vita. Se vogliamo veramente bene a una persona la aiutiamo mentre è viva ed ha bisogno della nostra assistenza. Noi stessi ci dobbiamo comportare bene finché viviamo, perché dopo la morte c’è il giudizio (Eb 9, 27) e non c’è più tempo per la conversione.

La Scrittura ci fa riflettere anche sul destino del cristiano dopo la morte, assicurandoci che Gesù è risorto dai morti e ha promesso a tutti quelli che credono in Lui di risorgere alla vita eterna (Gv 11, 25) e di stare con lui in paradiso. Gesù usa la parola “paradiso” sulla croce, quando promette la salvezza al ladrone pentito (Lc 23, 43). Non gli promette un luogo, ma una condizione. Egli sarà con lui. La vita eterna è stare per sempre con Gesù. Essa realizza il bisogno dell’uomo a vivere di relazioni. Sulla terra, infatti, ciò che ci tiene in vita è proprio la relazione. La mancanza di relazione con l’altro porta alla morte. Una cosa è universalmente constatabile: l’esistenza specificamente umana inizia con il riconoscimento di noi stessi da parte di un altro essere umano. Questo riconoscimento che si riceve dall’esterno non comporta conflitto, competizione, rivalità mimetica. L’esistenza dell’individuo, all’alba della sua avventura umana, per così dire, non inizia con una competizione di affetti e di ruoli, bensì con lo sguardo della madre che ogni neonato attira su di sé. Grazie a quello sguardo materno, il neonato si sente accolto, riconosciuto, amato.

Papa Francesco ha dedicato alcune catechesi al mistero della morte e alle ragioni della speranza, ribadendo anzitutto la convinzione che la morte non è l’ultima parola pronunciata sulla parabola dell’esistenza umana, anche se a molti uomini e a molte donne manca l’alfabeto giusto per darle un senso. I cristiani trovano questo alfabeto nella vita e nell’insegnamento di Gesù. “Gesù ha illuminato il mistero della nostra morte, dice il Papa. Con il suo comportamento, ci autorizza a sentirci addolorati quando una persona cara se ne va. Lui si turbò “profondamente” davanti alla tomba dell’amico Lazzaro e “scoppiò in pianto” (Gv 11,35). Ma ci autorizza ancora di più a credere in Lui, perché Lui è la risurrezione e la vita e chi crede in Lui, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in Lui non morirà in eterno” (Gv 11, 25-26).

“Essere cristiani, precisa Papa Francesco, implica possedere uno sguardo pieno di speranza”. “Qualcuno crede che la vita trattenga tutte le sue felicità nella giovinezza e nel passato, e che il vivere sia un lento decadimento. Altri ancora ritengono che le nostre gioie siano solo episodiche e passeggere, e nella vita degli uomini sia iscritto il non senso. Molte persone, davanti a tante calamità, dicono: “la vita è assurda; il destino degli uomini è crudele; il peso del dolore innocente è insopportabile”. Il cristiano non può condividere questa visione pessimistica della vita; deve avere il coraggio di andare contro corrente, di sperare contro ogni speranza. “Noi crediamo, dice il Papa, che nell’orizzonte dell’uomo c’è un sole che illumina per sempre. Crediamo che i nostri giorni più belli devono ancora venire. Siamo gente più di primavera che d’autunno. Scorgiamo i germogli di un mondo nuovo piuttosto che le foglie ingiallite sui rami. Non ci culliamo in nostalgie, rimpianti e lamenti: sappiamo che Dio ci vuole eredi di una promessa e instancabili coltivatori di sogni”.

Il cristiano sa che la morte è solo il passaggio drammatico dalla sponda della terra alla sponda del cielo. Nella città che sorge sulla sponda cielo, “Dio asciugherà ogni lacrima dagli occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio né grido né fatica, perché le cose di prima son passate…E la città non ha bisogno del sole né della luna, che risplendano in lei, perché la gloria di Dio la illumina e l’Agnello è il suo luminare” (Ap 21, 3-5).

La città del cielo dà senso e significato alla nostra speranza sulla terra. San Paolo ci assicura che questa speranza non delude, perché è un dono dello Spirito Santo. La virtù della speranza, talvolta considerata come la virtù povera e di seconda classe a confronto con la fede e la carità, non è il semplice ottimismo umano, non è la capacità di vedere il “bicchiere mezzo pieno”. Essa ha un nome: si chiama Gesù. S. Paolo, scrivendo ai Colossesi, precisa che “Cristo in voi è la speranza della gloria” (Col 1, 27). Non è cristiano, ribadisce Papa Francesco, camminare con lo sguardo rivolto verso il basso, come fanno le bestie, senza alzare gli occhi all’orizzonte. Come se tutto il nostro cammino si spegnesse qui, nel palmo di pochi metri di viaggio; come se nella nostra vita non ci fosse nessuna meta e nessun approdo, e noi fossimo costretti ad un eterno girovagare, senza alcuna ragione per tante nostre fatiche. “Alziamo gli occhi verso i monti: il nostro aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra; ci custodirà da ogni male: custodirà la nostra vita; ci custodirà quando usciamo e quando entriamo, da ora e per sempre” (Salmo 120). Amen.