Omelia per la Festa della Madonna del Rimedio

Santuario del Rimedio - 8 settembre 2017
08-09-2017

Cari fratelli  e sorelle,

la ricorrenza della festa della Madonna del Rimedio, nostra compatrona, per noi oristanesi è l’occasione della manifestazione della devozione popolare a Nostra Segnora remediu pro d’ogni male; per la Chiesa universale è la festa della nascita di Maria, ossia l’inizio della redenzione dell’umanità, l’aurora che precede il sorgere del sole. Come per San Giovanni Batista, precursore del Messia, così per Maria, la madre del Messia, si fa memoria liturgica non solo della nascita alla vita eterna, come per tutti i santi, ma anche della nascita alla vita terrena. Giovanni Battista ha preparato la venuta del Messia con la predicazione di penitenza e l’invito alla conversione. Maria ha preparato l’abitazione del Messia, con il suo sì all’annuncio dell’Angelo. L’ingresso di Maria nella storia della salvezza è tutto in funzione di Gesù, e l’intera sua esistenza si è svolta all’ombra del suo Figlio, intervenendo con discrezione a favore delle persone bisognose, rimanendo fedele al suo Figlio sin sotto la croce. Non ha operato come la first lady d’un capo di governo, e neppure come la star che ruba la scena al suo Figlio. E’ stata la Vergine che ha concepito e dato alla luce l’Emanuele, il Dio con noi (Mt 1, 23), la “Vergine e madre, figlia del tuo Figlio, umile e alta più che creatura”.

Per il profeta Michea, la nascita di Maria rappresenta l’inizio di un’era nuova, nella quale la pace non consisterà nell’assenza di conflitti ma nella stessa presenza del Messia: “Egli stesso sarà la pace” (Mic 5, 4). Noi professiamo l’adempimento di questa promessa tutti i giorni nella celebrazione dell’Eucaristia, quando ripetiamo le parole di Gesù: “vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Anche San Paolo ci ricorda che “Gesù è la nostra pace” (Ef 2, 14). Dante Alighieri, nel canto III del Paradiso, fa consistere la beatitudine e la pace nella piena conformazione della volontà dell’uomo alla volontà di Dio: “e nella sua volontà è la nostra pace.” Non è sempre facile fare la volontà di Dio. Non è neppure sempre facile capire quale sia la volontà di Dio per noi e per il nostro prossimo. Maria ci insegna, però, che è possibile fare la volontà di Dio. Lei è l’ancella del Signore, nella cui vita tutto si è compiuto secondo la Parola di Dio. La lettera pastorale che consegnerò alla comunità nel convegno ecclesiale diocesano del prossimo 14 ottobre, che sarà aperto dall’intervento di S.E. Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, avrà per titolo: “osare il Vangelo”, ossia avere il coraggio di vivere della Parola di Dio, di testimoniare la Parola di Dio.

Come singoli fedeli e come comunità ecclesiale chiediamo a Maria la grazia del coraggio di viver secondo la Parola di Dio. Solo così combatteremo forme di rassegnazione e fatalismo. Papa Francesco ha scritto nell’Evangelii Gaudium che “non viviamo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca” e, nel discorso ai Vescovi Italiani, nel novembre del 2016, ha aggiunto “mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta con il volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”. In buona sostanza, l’esortazione del Papa afferma il primato della missione sul semplice mantenimento delle strutture e la cura della vocazione missionaria di ogni discepolo di Cristo.

In effetti, con la rassegnazione non si va da nessuna parte Né nella vita civile né nella vita ecclesiale. Non è possibile vivere con le braccia conserte e gli occhi rivolti in alto, aspettando che scenda dal cielo il Salvatore. Il Salvatore, in realtà, è già venuto. Lo professiamo nel credo, quando preghiamo insieme, dicendo: “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo”. Ma Gesù è anche risalito in cielo, dopo aver lasciato sulla terra i discepoli con il compito di “andare e ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che ha comandato”, ed aver promesso di essere con loro tutti i giorni fino alla fine del mondo (Mt 28, 20). Dunque, come discepoli di Gesù, dobbiamo continuare la sua opera di salvezza. Gesù non ci ha dato un semplice consiglio, ci ha affidato una missione molto chiara: annunciare il suo Vangelo. Perciò, tutti ci dobbiamo sentire corresponsabili dell’annuncio del Vangelo, di fare discepole tutte le genti. Questo richiamo alla corresponsabilità vale soprattutto nella vita della parrocchia. In questa, spesso ci si attende che il parroco faccia tutto da solo, e ci si dimentica della propria responsabilità e corresponsabilità. Quando, per esempio, ci si oppone al trasferimento di un prete al quale si è affezionati, indirettamente, è come se si facesse dipendere il bene della parrocchia solo dal prete, e non si voglia prendere alcuna responsabilità personale nella vita della parrocchia, e, tanto meno, della Diocesi.

Chiediamo a Maria la grazia del coraggio di vivere secondo la Parola di Dio per prendere coscienza che Gesù ha affidato il compito di continuare la sua opera di salvezza ai discepoli, e i discepoli non sono solo i preti e le suore, ma tutti i battezzati. Nessuno, perciò, si deve tirare indietro, pensando di non essere stato “inviato”. Ognuno è responsabile se il suo fratello crede o non crede, se prega o non prega, se spera o non spera. Quando, un giorno, un giornalista pose la domanda a Madre Teresa: “Madre, cosa non va in questo mondo?” Lei rispose: “Signore, quello che non va siamo io e lei”. Dunque, se in una parrocchia qualcosa non funziona, prima di chiamare in causa il parroco o di scrivere al Vescovo, ognuno faccia il proprio esame di coscienza e verifichi se, come “fedeli incorporati a Cristo mediante il Battesimo, costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo loro proprio della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, si senta chiamato ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo” (cfr. LG, 31). L’apologeta cristiano Tertulliano ha scritto che unus christianus nullus christianus, ossia un cristiano da solo non è un cristiano, per sottolineare che il cristiano, in quanto tale, è inserito nella comunità dei battezzati, e non vive e opera mai da solo. Nella comunità dei battezzati, il bene degli uni è il bene degli altri; si sa gioire con chi gioisce e piangere con chi piange. Non è possibile, perciò, gioire delle disgrazie altrui, girare la faccia dall’altra parte quando c’è qualcuno che soffre e che chiede aiuto e solidarietà. Inoltre, il dono della fede non ci viene dato per consumarlo individualisticamente come un bene privato ed acquisito con i propri meriti. Ci viene dato per testimoniarlo, condividerlo, donarlo ai vicini e ai lontani. Mahatma Gandhi disse: “Io amo e stimo Gesù, ma non sono cristiano. Lo diventerei se solo vedessi un cristiano comportarsi come Lui”. Ebbene, noi potremo essere quel cristiano. Noi vogliamo comportarci come Gesù, e, con le parole di Papa Francesco, essere  “gente di primavera e non d’autunno”, “eredi d’una promessa e instancabili coltivatori di sogni”.

Amen.