Omelia per la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce

Oristano, Chiesa di San Francesco, 14 settembre 2017
14-09-2017

Cari fratelli e sorelle,

la festa liturgica che stiamo celebrando viene chiamata Esaltazione della Santa Croce. Ora, si esalta una cosa che piace, una persona che si ammira, un evento che si celebra. In altri termini, si esalta qualcosa o qualcuno che è grande, che ha meriti particolari. Si esalta un eroe che ha compiuto gesta spettacolari di salvataggio. Ma si può esaltare la croce? Come è possibile esaltare un simbolo di sofferenza, rinuncia, dolore? Nessuno è così autolesionista da esaltare le sue sofferenze, il suo dolore, le sue sconfitte. Se, però, la croce è simbolo di amore, di servizio, di altruismo, di generosità e gratuità, come viene riconosciuto anche dai non credenti, cambia il discorso. Basta ricordare i molti esempi di gratuità, servizio, generosità che i cristiani danno in tutte le parti del mondo. Portare la croce, per  il discepolo di Gesù, non vuol dire andare in giro a piangere, lamentarsi, fare il lutto, predire disgrazie. In estrema sintesi, portare la croce vuol dire amare. Portare la croce con Gesù vuol dire amare come ha amato Lui.

Gesù ha detto: “Io vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv, 13, 34-35). Egli, dunque, dà un comandamento nuovo. Il suo comandamento è nuovo, perché indica un modo nuovo di amare Dio e il prossimo. Nella spiritualità dell’Antico Testamento, Dio aveva ordinato di amare il prossimo come se stessi (cfr. Lv 19, 18). La misura dell’amore, quindi, era la propria capacità umana. Nel comandamento di Gesù, invece, la misura è Lui stesso, e, cioè, una misura divina, non più solo umana. Questa misura divina lo ha spinto a morire e dare la propria vita per tutti gli uomini. Quindi, il comandamento di Gesù è nuovo, perché richiede un diverso modo di amare, richiede un amore come il Suo, disposto al sacrificio, a donare se stessi in modo generosamente altruistico, pratico e attivo (cfr. Gv, 15, 12-13; 1Gv, 3, 16). “Carissimi, ha ripetuto Gesù, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio”(Gv, 4,7). Si specifica, quindi, la ragione per cui ci si deve amare l’un l’altro e per cui è possibile vivere in piena comunione con Dio.

Ora, amare come ha amato Gesù comporta anzitutto che l’amore sia trasparente, proprio come l’evento della sua croce. “Voi siete la luce del mondo – ha detto Gesù – e non può restare nascosta una città collocata sopra un monte” (Mt 5,14). La lucerna non viene posta sotto il moggio, ma sopra il candelabro, perché possa illuminare tutti quelli che sono nella casa: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,15-16). “Queste opere buone sono soprattutto le opere della carità (cfr. Mt 25,3 1-46): esse devono risplendere “davanti agli uomini”, dunque devono essere luminose e visibili. Ma la loro visibilità dev’essere accompagnata da una sorta di trasparenza, che non ferma l’attenzione su di sé, ma invita gli uomini a prolungare lo sguardo verso Dio.  Anzi, per assicurare questa trasparenza, chi compie le opere buone deve, in certo senso, tenerle segrete persino a se stesso: “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (cfr. Mt 6,l-6). Nella sua vita e sulla croce, in ogni suo gesto, Gesù è stato la trasparenza del Padre. Allo stesso modo la Chiesa, nelle molteplici forme del suo servizio, deve rivelare il volto di Dio, non anzitutto se stessa. Questo è lo stile richiesto ad ogni credente, nella vita ecclesiale come nell’impegno nel mondo”.

L’amore di Gesù, inoltre, è gratuito oltre ogni misura. San Paolo, nella lettera ai Romani ha scritto: “Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; … ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,7-8). Chi contempla il Crocifisso scorge un amore tanto gratuito e sconfinato da apparire incredibile. Con il suo amore di preferenza per i peccatori e i lontani (cfr. Lc 15), per i poveri e gli esclusi (cfr. Lc 14,12-14), che si estende a tutti, compresi i nemici (Mt 5,43-48), Gesù ha manifestato quella gratuità e sovrabbondanza di amore che caratterizzano tutto l’agire di Dio. La generosità di Dio non si misura infatti sui bisogni degli uomini: è infinitamente più grande di essi. Perciò la Chiesa e ciascun cristiano devono a loro volta improntare alla gratuità e sovrabbondanza tutte le forme di servizio all’uomo, anche quelle meno facili dell’impegno professionale, sociale e politico, caratterizzandole con l’apertura universale, la predilezione per gli ultimi, la disponibilità al sacrificio di sé. E nello stesso tempo devono rimanere sempre consapevoli che “nessun nostro impegno basta a manifestare l’amore di Dio , che supera ogni attesa e ogni desiderio”.

L’amore di Gesù spinge il cristiano ad assumere un’attiva responsabilità nei confronti del mondo in tutti i suoi aspetti, dalla cultura all’economia alla politica, senza sottovalutare le forme più nascoste, e perché essenziali, delle relazioni immediate e personali. “È la carità di Maria che, ricevuto l’annuncio dell’Angelo, s’incammina in fretta per visitare Elisabetta (Lc, 2, 39) e che alla festa delle nozze di Cana si accorge che “non hanno più vino” (Gv, 2,3); quella del samaritano che si fa prossimo al ferito che casualmente incontra sulla sua strada (Lc, 10,30-37); l’accoglienza dei diseredati che il mondo trascura, ma che Gesù chiama con predilezione “i suoi fratelli più piccoli” (Mt 25,40); e anche la carità della correzione fraterna (Mt 18,15-17), della parola che aiuta gli sfiduciati a ritrovare la speranza (1s 50,4), della franchezza della verità”.

Infine, l’amore di Gesù salva e libera dal male morale oltre che dal male fisico. Infatti, non basta essere guariti nel corpo per essere salvati nell’anima! In generale, la salvezza significa la liberazione da condizioni indesiderabili. Nello specifico, ossia nel cristianesimo, essa si riferisce alla grazia di Dio che libera gli uomini dal peccato e dalle sue conseguenze temporali ed eterne: “Dio ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figlio” (Col 1, 13); “Il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore”(Rm 6, 23). Il bisogno di salvezza eccede la domanda della semplice integrità fisica dell’organismo. In realtà, tutti gli esseri umani hanno bisogno di essere salvati non solo dalle malattie, ma da una quantità di mali: dall’ignoranza, dall’incertezza, dalla confusione; dal bisogno di pane, di affetto, di dignità, dall’errore, dal peccato. In una parola, dal male in tutte le sue forme ed espressioni. La fede cristiana ci insegna che il fine della venuta di Gesù nel mondo non è tanto la liberazione dalla malattia fisica, per quanto operata da diversi miracoli, quanto la salvezza dell’umanità dal peccato e dalla morte, come viene attestato dalla sua stessa testimonianza: “Io sono venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Cari fratelli e sorelle, ascoltiamo Papa Francesco che ci dice: “Guardiamo alla croce, sulla quale il Figlio di Dio è morto per la nostra salvezza. Essa è la risposta di Dio al male e al peccato dell’uomo. È una risposta di amore, di misericordia e di perdono. Mostriamo questa Croce al mondo e glorifichiamola nei nostri cuori, nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità”.

Amen.