Omelia per la festa di San Francesco d’Assisi

Oristano, Chiesa di San Francesco
04-10-2017

Cari fratelli e sorelle,

celebriamo la festa di S. Francesco d’Assisi, Padre della famiglia francescana nel mondo e patrono d’Italia. IL suo culto è veramente universale, perché è diffuso in tutto il mondo. I messaggi che ci provengono dalla sua memoria e dalla sua devozione sono tanti e tutti carichi di significati spirituali Il fatto, poi, che papa Bergoglio abbia scelto di chiamarsi Francesco li ha resi ancora più attuali. Soprattutto il messaggio della povertà viene declinato dal Papa venuto dalla fine del mondo in diversi toni e in diverse circostanze, non ultima la visita a Bologna e gli incontri con i migranti, i religiosi, il mondo del lavoro. A Bologna, egli ha anche augurato alle Congregazioni Religiose di perdere i beni materiali, per acquistare la libertà dello Spirito. Non so se i Superiori delle Congregazioni abbiano accolto questa provocazione con il canto dell’alleluia!

Questa sera vorrei fermarmi su due indicazioni della liturgia della Parola, non troppo attuali e neppure troppo facili da capire o praticare: “vantarsi della croce” e “portare il giogo di Gesù”. Per quanto riguarda la prima indicazione, San Paolo ha scritto ai cristiani della Galazia: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo.” Questo suo vanto non è per niente un’espressione retorica. La sua documentazione concreta, infatti, la troviamo nella lettera che egli ha indirizzato ai cristiani di Corinto: “Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?” Il vanto, dunque, non è una professione di fondamentalismo ascetico ma il racconto d’una esperienza vissuta in prima persona. San Paolo poteva dire: “non sono più io che vivo ma è Cristo vive in me”; “per me vivere è Cristo”.

Anche S. Francesco poteva in qualche modo vantarsi della croce. Nell’anno 1224, si rivolgeva al Signore con questa preghiera: “O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch’ io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori”. La sua preghiera fu esaudita e ricevete sul proprio corpo i segni visibili della Passione di Cristo, le stigmate. La Chiesa riconobbe la straordinarietà del fenomeno, inteso quale segno privilegiato concesso da Cristo al suo umile servo di Assisi, anche da un punto di vista liturgico, ed ha inserito la ricorrenza nel calendario. Papa Benedetto XI, infatti, concesse all’Ordine Francescano ed all’intero Orbe cattolico di celebrarne annualmente il ricordo il 17 settembre. Il fenomeno delle stigmate, come partecipazione alla passione di Gesù, si è riprodotto nella vita di Santa Veronica Giuliani, Santa Gemma Galgani, Teresa Neumann, P. Pio da Pietrelcina.

La seconda indicazione riguarda l’invito a prendere il giogo di Gesù. Ora, il giogo che Gesù, di per sé, non è “dolce”, ma “utile”, “fatto a misura”. Il giogo di Gesù, quindi, è creato esattamente per la nostra vita, non supera le nostre forze, non ci fa cadere sotto il suo peso. Inoltre, siccome esso, come per essere applicato ai buoi, è sempre fatto per una coppia, ci viene assicurato che il nostro partner è Gesù stesso. L’assicurazione che Gesù è il nostro partner e porta il nostro peso è molto importante soprattutto perché Egli ha detto che la vita di un discepolo non sarebbe stata facile, ma pesante: “Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figliuol dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9, 58). In altre parole, i suoi discepoli dovevano condurre uno stile di vita precario senza una sistemazione permanente. Gesù aveva anche detto, “chi non porta la sua croce e non vien dietro a me, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 27). Cioè, la vita di un discepolo sarebbe stata una vita di sacrificio. Un simile stile di vita sarebbe necessariamente stato caratterizzato da dedizione estrema verso il proprio dovere e verso il proprio maestro: “Nessuno che abbia messo la mano all’aratro e poi si volta indietro è adatto al regno di Dio” (Lc 9, 62); “Seguimi, e lascia i morti seppellire i loro morti” (Mt 8, 22).

La verità di San Francesco, ha sottolineato papa Benedetto XVI, è la sua “scelta radicale di Cristo”, la conversione suscitata in lui dalle parole di Gesù crocifisso: “Va’, ripara la mia casa”. Egli “incarnò in modo esemplare la beatitudine proclamata da Gesù nel Vangelo: ‘Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio’ (Matteo 5, 9). La testimonianza che egli rese nel suo tempo ne fa un naturale punto di riferimento per quanti anche oggi coltivano l’ideale della pace, del rispetto della natura, del dialogo tra le persone, tra le religioni e le culture. È tuttavia importante ricordare, se non si vuole tradire il suo messaggio, che fu la scelta radicale di Cristo a fornirgli la chiave di comprensione della fraternità a cui tutti gli uomini sono chiamati, e a cui anche le creature inanimate – da ‘fratello sole’ a ‘sorella luna’ – in qualche modo partecipano. Nelle parole a lui rivolte dal Crocifisso della chiesa di San Damiano – ‘Va’, Francesco, ripara la mia casa…’ –, nella sua scelta di radicale povertà, nel bacio al lebbroso in cui s’espresse la sua nuova capacità di vedere ed amare Cristo nei fratelli sofferenti, prendeva inizio quell’avventura umana e cristiana che continua ad affascinare tanti uomini del nostro tempo.”

Cari fratelli e sorelle,

lasciamoci affascinare anche noi dall’esempio di San Francesco ed imitiamo la sua conversione ad una vita di umiltà e povertà. In questo modo, possiamo dare il nostro contributo al rinnovamento della Chiesa. La Chiesa Arborense ha bisogno del vostro aiuto e della vostra buona volontà. S. Francesco e Santa Chiara vi benedicano. Amen.