Omelia per la Messa al Convegno Ecclesiale Diocesano

Cattedrale di Oristano
20-10-2018

Cari fratelli e sorelle,

vi saluto con viva cordialità e vi ringrazio per la vostra presenza e condivisione di questo momento di Chiesa, molto ricco di significati spirituali per la nostra Comunità Diocesana. Siamo convocati come Assemblea del Popolo santo di Dio ed invitati alla mensa della Parola e del Pane di vita. La ragione del nostro convenire è primariamente la riflessione comunitaria sulla preghiera liturgica e la pietà popolare, ossia sui modi di esprimere compiutamente i nostri sentimenti religiosi. Ora, la Parola di Dio che è stata proclamata ci viene incontro per illuminarci su questi modi di vivere e testimoniare la nostra vita di fede. Il profeta Isaia e l’autore della lettera agli Ebrei evocano la testimonianza esemplare di Gesù, che si addossa l’iniquità del popolo e sa prendere parte alle nostre debolezze. Gesù non si presenta, dunque, come il discendente del re Davide, che libera il popolo ebraico dalla schiavitù dei romani, ma come colui che, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 1-11). S. Paolo scrive dalla prigione in cui si trova recluso e propone alla comunità cristiana di Filippi il cammino di Gesù facendo capire che anche Gesù ha conosciuto l’esperienza del camminare, del progredire “in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini” (Lc 2, 52). Il cammino di Gesù, però, è l’opposto del cammino di Adamo (Gn 3,5), ossia dell’uomo che cerca in tutti i modi di innalzarsi fino a Dio, di disporre delle sue prerogative. Il Figlio di Dio, invece, spogliandosi della sua condizione divina, accetta di condividere la condizione umana. Possiamo dire che il cammino dell’uomo e il cammino del Figlio di Dio rappresentano l’alternativa tra l’arroganza dell’uomo e la condivisione di Dio.

I discepoli Giacomo e Giovanni, all’inizio, non riconoscono o non vogliono riconoscere la modalità della missione redentrice di Gesù e concepiscono il discepolato come un ruolo di potere e di governo. Gesù, allora, spiega pazientemente la natura del discepolato e fa capire che come Lui è venuto non per farsi servire ma per servire gli altri, così anche essi devono mettersi al servizio del prossimo: “Ma Gesù li chiamò a sé e disse: “Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20, 25-28). In concreto, l’unico potere che Gesù darà ai discepoli è quello di scacciare i demoni e guarire le malattie, non di sottomettere le persone. “Poi, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità” (Mt 10, 1).

Ora, la parola “servizio”, fuori dal contesto del Vangelo, è fra le più abusate e strumentalizzate del vocabolario italiano. Non solo nel mondo ecclesiastico, ma anche in quello politico ed economico si trovano sempre persone che si dichiarano servitori dello Stato, del bene comune, delle istituzioni, ma scambiano il servizio che dicono di prestare con il potere che vogliono esercitare. Per quanto riguarda l’ambito della nostra vita di fede dobbiamo ricordarci che servire la Chiesa non significa servirsi della Chiesa per curare i propri interessi, cercare riconoscimenti, ottenere visibilità e privilegi, ma mettere a servizio della Chiesa i propri doni, il proprio tempo, la propria passione evangelica. Infatti, come i presbiteri sono ordinati per il servizio della Diocesi e del Popolo di Dio e non per inseguire progetti di affermazione personale, così i fedeli laici sono abilitati a prestare il servizio in parrocchia e non per cercare gratificazioni personali o la simpatia del parroco. E’ bene ricordarsi che prima di collaborare con una persona molto o poco simpatica si collabora con un ministro di Dio, per la causa del Regno. S. Paolo afferma che: “non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, il quale anche ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2Cor 3,5-6). Questa verità vale per il parroco come per il Vescovo e per il Papa. Si lavora per la Chiesa di Dio, a prescindere che il papa si chiami Francesco o Benedetto, e il vescovo si chiami Ignazio o Pier Giuliano. Il Vescovo è il successore degli apostoli e, nella sua Chiesa locale, è “il visibile principio e fondamento dell’unità” (LG, 23), cioè della comunione di tutti i fedeli.

Servire la Chiesa vuol dire amarla nella realtà delle sue istituzioni e dei suoi uomini e non nella nostra immaginazione ideale. Sulla tomba di P. Josef Kentenich, fondatore del Movimento di Schoenstatt, c’è scritto: dilexit Ecclesiam, amò la Chiesa, per attestare la sua fedeltà alla Chiesa in tutti i momenti della sua vita, soprattutto in quelli in cui ha obbedito alla volontà del Papa e dei Vescovi, sottoponendo al loro giudizio il proprio carisma. Scambiare il servizio pastorale per l’esercizio del potere ecclesiastico è puro clericalismo, condannato da Papa Francesco. Il clericalismo, dice il Papa, “nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare”.

Caro fratelli e sorelle,

ognuno senta il dovere di dare il proprio contributo per il bene della Chiesa. Quello che può dare ognuno di noi non lo può dare nessun altro al mondo, lo dobbiamo dare solo noi. Infatti, Dio ci chiama per nome, e, perciò, dobbiamo rispondere personalmente e dare il nostro contributo personale al bene della Chiesa. Può darsi che nella nostra risposta abbiamo qualcosa da correggere e da migliorare. Facciamo, allora, un serio esame di coscienza e vediamo che cosa non abbiamo fatto e che cosa dobbiamo fare. Di sicuro, dobbiamo vincere la rassegnazione e lo scoraggiamento. Se ci fidiamo di Gesù, della sua vita, del suo insegnamento, della sua promessa, cammineremo “sulle vie della giustizia e della pace”. Diceva Kennedy: “miei concittadini americani, non chiedete cosa il vostro paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese”. Mi permetto di dirvi: cari fratelli e sorelle della Chiesa Arborense non chiedete che cosa la Chiesa può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per la Chiesa Arborense. Potete fare cose belle e cose grandi. Credeteci. Il Vangelo è nelle vostre mani. Il Cristo risorto è con voi!!

Amen.