Omelia per la Messa Crismale

01-04-2021

Omelia per la Messa Crismale

Cattedrale di Oristano 1 aprile 2021

 

Cari presbiteri e diaconi, fratelli e sorelle, il Signore vi dia pace.

Nella Colletta abbiamo chiesto a Dio di darci la grazia di: essere nel mondo testimoni della Sua opera di salvezza. È una bella sintesi della vocazione a cui tutti siamo chiamati come popolo cristiano e che oggi, specialmente per i presbiteri, assume il solenne carattere di impegno che si rinnova nelle promesse sacerdotali, in comunione con il vescovo.

Essere nel mondo: possiamo intendere la parola mondo, come il momento storico che stiamo vivendo, nelle sue molteplici dimensioni: la situazione di incertezza a livello sociale; la fatica a comprendere verso dove ci stiamo dirigendo; il cammino non esente da fatiche, pesantezze e disorientamento che vive la Chiesa italiana. Anche la nostra Chiesa Arborense fatica a capire quale strada percorrere, frenata certo da tutto ciò che stiamo vivendo a causa della pandemia, ma anche incerta di fronte a questo nuovo orizzonte ecclesiale che si intravede ma ancora non ha contorni ben definiti, e per questo ci spaventa. Come comunità cristiana, presbiteri e laici, siamo combattuti tra afferrarci saldamente a quello che abbiamo conosciuto nel passato e il desiderio, ma anche il timore, di intraprendere percorsi nuovi.

La parola di Papa Francesco non cessa di esortarci a una lettura attenta della realtà, a fare discernimento. Poche settimane fa ha invitato con forza la Chiesa italiana a riprendere il progetto di cammino sinodale dal basso e dall’alto, che trova nell’Evangelii Gaudium e nel Convegno Ecclesiale di Firenze del 2015, le sue fonti ispiratrici. L’invito della Colletta a Essere nel mondo è, per noi presbiteri e laici, una responsabilità quotidiana; non possiamo disertare quest’appuntamento, giacché si tratta della nostra storia attuale. Non possiamo fare come se le cose non avvenissero, come se il mondo non stesse cambiando, come se la comunità dei fedeli non vivesse incertezze e confusione e fosse sufficiente aspettare che tutto ritorni come prima. Dobbiamo dircelo con chiarezza: non si ritornerà al come prima; forse a meglio di prima, oppure diversamente da prima, ma non come prima.

Cosa leggiamo oggi, come presbiteri, nel nostro essere nel mondo? Facciamo esperienza, talvolta, nel nostro servizio pastorale di una percezione di frammentazione e dispersione. Ci rendiamo conto che non basta più cambiare qualche cosa, qualche metodo pastorale o aggiornare qualche riflessione. La Chiesa, nel suo essere e testimoniare il vangelo, ci chiede un cambio più profondo, ma non sappiamo bene in che direzione. Ci domandiamo e domandiamo allo Spirito di Dio: Cosa dobbiamo e possiamo fare? Il primo passo, per essere veri testimoni nel mondo è quello di assumere coraggiosamente questo momento impegnativo, anche di disorientamento e di ansia, nel contesto di questo cambio di epoca. Siamo chiamati ad accettarlo prima di tutto noi presbiteri e poi aiutare il corpo della Chiesa, i fedeli, ad assumere questo processo di trasformazione. Si tratta di pregare, riflettere con attenzione, condividere, studiare, ascoltare.

Questi verbi, che vi invito a riprendere e meditare, mi sembrano il progetto più adeguato per affrontare la situazione attuale, coinvolgendo tutte le componenti ecclesiali. Tutti noi ci chiediamo quale forma assumerà la nostra esperienza ecclesiale, come vivremo la nostra vocazione a essere il popolo di Dio guidato dallo Spirito Santo, quando terminerà questo lungo periodo di sospensione delle forme abituali e consuete nel nostro vivere la fede. Cari presbiteri e fedeli laici, ci rendiamo conto che tutta la Chiesa, le nostre comunità, ma anche noi siamo immersi in questa transizione? In questi anni siamo stati chiamati a ridefinire la nostra vocazione e identità cristiana e anche sacerdotale, per rispondere alle sfide che incontravamo. Mettiamoci criticamente di fronte alla tentazione di cristallizzarci nel passato o di pensare a un’ipotetica modernità ecclesiale, protesa solo al futuro e senza radici: in entrambi i casi si rischia di impedire l’azione dello Spirito Santo nella storia.

Ecco, mi pare questo il senso dell’invocazione a Dio di essere testimoni nel mondo. Dobbiamo metterci nella disponibilità di ascoltare con attenzione, ad accogliere le posizioni dell’altro per entrare in una dimensione di dialogo e ascolto reciproco. Dobbiamo incamminarci in questa prospettiva, dove l’altro mi può aiutare anche nel mio modo personale di affrontare le sfide. Purtroppo, facciamo fatica ad affrontare insieme le sfide, e la transizione in cui ci troviamo. Evitiamo la tentazione di frammentarci tra noi, perché questo indebolisce il nostro annuncio, la nostra missione. Seppure nella differenza dei percorsi pastorali che ci possono essere e che dobbiamo integrare, è necessario offrire il messaggio di unità e benevolenza tra noi. Questo perché i fedeli che percepiscono la frammentazione sono poi disorientati e ne perde la credibilità del Presbiterio e della Comunità stessa.

Anche queste due indicazioni mi sembrano parte di un possibile programma di vita presbiterale e diocesano: unità e benevolenza, per contrastare la frammentazione e divisione che, talvolta, emerge e per superare una critica non costruttiva, senza misericordia. La Colletta chiede al Signore di essere testimoni. Come essere testimoni oggi, presbiteri e fedeli laici? Al centro delle nostre preoccupazioni deve esserci l’evangelizzazione e anche la ripresa consapevole dell’invito di Papa Francesco, che esorta, come dicevo prima, a riprendere l’Evangelii Gaudium per iniziare quel percorso sinodale.

Non possiamo nasconderci che la fede, nella quotidianità si è indebolita. Tante forme tradizionali di presenza e azione cristiana hanno perso di efficacia. La vita reale formava anche il tessuto della fede, nel quotidiano: la carità, la preghiera, l’animazione culturale e politica. Oggi risichiamo di essere un’agenzia che eroga servizi e risponde a domande di devozione. Essere testimoni vuol dire accogliere il momento di transizione della forma ecclesiale e impegnarci a suscitare la fede dentro la vita della gente, nella sua carne, nei suoi legami. La fede in Gesù morto e Risorto deve tornare a essere esperienza concreta; dobbiamo animare dal di dentro il tempo che viviamo. È necessario superare la preoccupazione dalla salvaguardia e conservazione dell’organizzazione e delle strutture, per concentrarci piuttosto nella ricerca e nella cura dei luoghi in cui prende forma l’esperienza cristiana in grado di dire il senso della vita, della solidarietà, della cura, dell’inclusione.

Inoltre, dobbiamo crescere nella collaborazione: dobbiamo approfondire questa prassi che non significa solo fare quanto è stato progettato, ma farci coinvolgere nella riflessione, a volte anticiparla, suggerire, proporre, stimolare. Dobbiamo, ancora una volta, uscire da quell’atteggiamento di stare alla finestra ma senza farci coinvolgere. Piuttosto, ciascuno di noi può e deve dare il suo contributo, anche per la vita pastorale della comunità diocesana. Possiamo accogliere e utilizzare le buone prassi che altri hanno attivato nelle varie comunità, piuttosto che aspettarci grandi programmi elaborati da uffici o gruppi di lavoro, che possono certo essere utili, ma non devono diventare un alibi per la nostra inerzia e passività.

Condividere tra noi quelle buone prassi che già vediamo efficaci ed eventualmente discuterle, valutarle nel contesto specifico di ogni comunità. Questo significa, però, un atteggiamento di benevolenza e accoglienza dell’altro. Infine, sempre la Colletta ci ha indicato il compito a cui siamo chiamati: portare e testimoniare l’opera della salvezza del Signore. Come accennavo, si tratta di metterci in dialogo con il presente e il vissuto della gente, per riattivare una dinamica che superi la routine. Riattivare esperienze di santità, di purificazione della capacità di amare, di maturare anche le strutture che fanno parte della Chiesa e si sono cristallizzate, anche le strutture di governo, lo stesso ministero del parroco e anche del vescovo, rendendole più agili ed accoglienti.

Dobbiamo credere che la nostra fede ha in sé elementi per riannodare legami tra noi, dare risposte ai bisogni e affrontare insieme il nuovo che avanza. Le parole di Gesù nella sinagoga di Nazareth, ancora una volta, ci invitano a divenire strumenti di riconciliazione, di guarigione e di liberazione. Sono parole rivolte a tutti, ma che, come presbiteri, dobbiamo assumere nel contesto della nostra vocazione specifica. Nelle promesse sacerdotali ci viene chiesto di assumere l’impegno di essere ministri della misericordia, annunciatori della Parola e ministri dell’Eucaristia. È la nostra vocazione, che possiamo sintetizzare in una frase: essere guaritori feriti, per usare una felice espressione di Henri Nouwen, per poter a nostra volta guarire gli altri e toccarli con misericordia. Gesù ci guarisce e, chiamandoci alla sua sequela, ci fa strumenti di guarigione. Siamo ben consapevoli, come dice san Paolo, che noi portiamo questo tesoro in vasi di argilla; riconosciamo le nostre fragilità e fatiche ma, al tempo stesso, siamo consapevoli che si tratta di un dono di grazia, totalmente gratuito, che fa risaltare nella nostra debolezza la presenza di Dio.

Cari presbiteri, cresciamo in questo sguardo di benevolenza tra noi e nei confronti delle comunità che ci sono affidate consegnando, nelle mani del Signore, le fatiche di quest’anno, i momenti di incertezza, certi di quella parola del Signore che ci ha detto: Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo.

Concludo questa riflessione esprimendo parole di ringraziamento e di preghiera. Ricordiamo gli arcivescovi emeriti mons. Pier Giuliano Tiddia, mons. Ignazio Sanna. I vescovi originari della nostra diocesi mons. Mario Fiandri, vescovo di Madarsuma e vicario apostolico di El Peten (Guatemala); mons. Mauro Maria Morfino, vescovo di Alghero-Bosa. Grazie a mons. Paolo Atzei, arcivescovo emerito di Sassari che, con generosità, si rende sempre disponibile per il ministero pastorale in Diocesi. Preghiamo per i nostri confratelli che, in quest’anno, celebrano ricorrenze giubilari: don Ernesto Zireddu (decano: il prossimo 3 novembre compirà 98 anni, con 72 anni di sacerdozio); 70° don Ilario Nonnis; 60° mons. Giulio Esu, don Antonio Sanna e padre Giorgio Piras OFM capp; il 50° mons. Isidoro Meloni e don Mario Nurchi, il 25° don Alessandro Enna e don Antonello Cattide. Saluto i sacerdoti che sono stati incardinati recentemente nel Presbiterio arborense: don Simon Pedro, don Patricio Kuncewitcz e don Manolo Venturino. E i due diaconi don Antonello Angioni e don Daniele Quartu, in cammino verso l’ordinazione sacerdotale. Ricordiamo i nostri missionari: don Luciano Ibba in Perù e le religiose e i religiosi arborensi, che operano in terra di missione. Ricordiamo nella preghiera i nostri seminaristi. Un ricordo affettuoso per i tanti sacerdoti anziani e malati che soffrono, e per i sacerdoti che vivono un periodo di riflessione e discernimento. Un ricordo speciale per i nostri defunti: mons. Sergio Pintor, vescovo emerito di Ozieri, mons. Clemente Caria, don Francesco Casula. Anche se solo rappresentati da un piccolo gruppo, saluto i ragazzi e le ragazze che mediante l’unzione col nuovo Crisma, riceveranno la Cresima durante quest’anno. Saluto le monache di clausura, i religiosi e le religiose e i laici delle associazioni di volontariato, della Caritas e dei vari organismi diocesani e parrocchiali.

Infine saluto con affetto tutto il Popolo di Dio della nostra amata Chiesa Arborense. A tutti voi grazie per il vostro prezioso servizio alla Chiesa di Cristo, che vive e cammina nella nostra Arcidiocesi Arborense. Grazie per il vostro impegno, la fatica, la dedizione anche nei momenti difficili. Chiedo per me la vostra preghiera: per poter servire, nel modo migliore, chiedendo perdono per i miei limiti. La Madre del Signore, che veneriamo con titolo di Nostra Signora del Rimedio, ci aiuti con la sua protezione.

+ Roberto, arcivescovo