Omelia per la Messa di Corpus Domini

03-06-2018

Cari fratelli e sorelle,
abbiamo celebrato l’Eucaristia e abbiamo portato il Santissimo in processione per le vie della nostra città, invocando la sua protezione sulle nostre famiglie e sulle nostre istituzioni. Ora vogliamo riflettere un momento sul significato, per la nostra vita di credenti, del gesto di fede che abbiamo compiuto. Sia le letture dal libro dell’Esodo e dalla lettera agli Ebrei così come lo stesso Vangelo riportano la parola: “alleanza”, un termine biblico molto significativo. Negli ultimi tempi abbiamo sentito ripetere spesso un’altra parola: “contratto”, al fine di indicare il mezzo migliore per regolare la vita sociale e politica degli italiani. Il contratto, però, è valido per regolare i rapporti tra gli uomini, non è valido per regolare il nostro rapporto con Dio. Il nostro rapporto con Dio, infatti, non è paritetico. Noi non siamo alla pari con Dio. Lui è il Creatore, l’Onnipotente. Noi siamo semplici creature. Nella messa cantiamo: “Ecco il nostro niente, prendilo o Signor”. Per questo motivo, non troviamo la parola “contratto” nella Bibbia. C’è, invece, la parola “alleanza”, per descrivere il patto di Dio con gli uomini di tutti i tempi. Per la prima volta, troviamo questa parola nel patto con il patriarca Noè (cfr. Gn, 9); la troviamo ripetuta nel patto con il patriarca Abramo (cfr. Gn,15); la troviamo nel patto del patriarca Mosè con il popolo sul Monte Sinai (cfr. Es,24). Infine, la troviamo nel gesto dell’ultima cena di Gesù, quando ha istituito l’Eucaristia, per garantire la sua presenza in mezzo a noi tutti i giorni, fino alla fine dei tempi (cfr. Mc, 14).
In parole semplici, l’alleanza esprime la fedeltà di Dio nei nostri confronti. Noi possiamo tradire, Dio non tradisce mai. Prega il salmista: “eterno è il suo amore per noi; eterna è la sua fedeltà” (Sal, 99, 5). La fedeltà di Dio è la garanzia della nostra salvezza. Se, infatti, la salvezza dipendesse solo dalla nostra fedeltà, non potremmo stare molto tranquilli, perché conosciamo la nostra debolezza e la nostra precarietà. Quante volte abbiamo messo le ali perché volevamo volare e ci siamo trovati sporchi del fango della terra! Quante volte abbiamo promesso fedeltà e abbiamo tradito chi ci ha dato fiducia e promesso amore. Oggi, poi, evocare un rapporto di fedeltà equivale a pronunciare una bestemmia sociale. La civiltà del computer cancella rapporti di convivenza, diritti di buona fama, doveri di rispetto delle persone e dei ruoli istituzionali con un semplice clic d’una tastiera.
L’ultima cena con i discepoli evoca la celebrazione della pasqua ebraica, che ha scandito la vita di Gesù. Per esempio, secondo San Luca, Gesù dodicenne compie il pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme insieme ai genitori, che non compresero il suo gesto e lo cercarono angosciati per tre giorni (Lc 2, 41-50). San Giovanni ricorda almeno tre pasque della vita pubblica di Gesù: quella in cui opera la purificazione del tempio e annuncia la costituzione del suo corpo stesso come tempio nuovo (Gv, 2, 13-25); quella in cui avviene il “segno” della moltiplicazione dei pani e l’autorivelazione di Gesù come “pane vivo, disceso dal cielo” (Gv 6, 35-59); l’ultima, connessa alla resurrezione di Lazzaro e all’ingresso messianico a Gerusalemme culminante nell’annuncio della salvezza universale: “E io, quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me” (Gv 12, 32).
Ora, nel rito dell’ultima cena, Gesù usa il termine “alleanza”, e San Luca e l’Apostolo Paolo precisano che si tratta di una “nuova alleanza”. L’autore della Lettera agli Ebrei chiarisce il concetto della nuova alleanza, citando testualmente il testo profetico di Geremia: “Ecco verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi il loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora sarò io il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: “Riconoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31, 31-34). Dunque, il passaggio definitivo cui alludono le parole pronunciate da Gesù sul calice dell’ultima cena è il passaggio dalla legge scritta sulla carta alla legge non scritta del cuore. Secondo uno studioso della Bibbia, “la Pasqua di Cristo è il passaggio dal dovere della religione alla libertà della fede”.
Per quanto riguarda il comandamento di Gesù di fare la sua memoria ripetendo il gesto eucaristico di mangiare il suo corpo e bere il suo sangue, mi permetto di ricordare che, secondo Gustavo Gutierrez, noi cristiani siamo eredi e testimoni di due memorie unite in una. La prima è la memoria dell’ultima cena: “fate questo in memoria di me” (cfr. Mc 14, 22-25) . Le nostre Eucaristie fanno memoria della passione, morte e risurrezione di Gesù, nonché del suo insegnamento, della sua misericordia, della sua salvezza. E’ una memoria che ci dà forza e speranza, che ci fa entrare in comunione con Gesù stesso. C’è però anche un’altra memoria che troviamo nel vangelo di Giovanni: la lavanda dei piedi (cfr. Gv 13, 1-15). La prima “memoria” è sostituita dalla seconda, ossia dal “comandamento” di ripetere il gesto di Gesù, nel mettersi a servizio delle altre persone. Ma le due memorie sono inseparabili. Una non può sussistere senza l’altra. Le possiamo distinguere ma non separare. Fare memoria di Gesù è la stessa cosa che mettersi al servizio dell’altro, e mettersi al servizio dell’altro è la stessa cosa che testimoniare Gesù. E’ quanto è avvenuto con la vicenda del “samaritano invisibile” di Milano, che ha donato il suo rene al Policlinico Gemelli e ha salvato la vita a uno sconosciuto. In queste stesse ore, Papa Francesco porta Gesù Eucaristia nelle vie di Ostia, trasformando in tabernacolo le strade del quartiere, dove la gente si sente minacciata nella propria sicurezza. Questo gesto del Papa ci insegna che servire il povero è un’altra forma di ricordare Gesù.
Cari fratelli e sorelle,
vorrei concludere questa mia riflessione con la seguente preghiera: “Signore Gesù, credo che sei nell’Eucaristia, vivo e vero. Tutto ciò che fa di Te una Persona, il Figlio dell’uomo ed il Figlio di Dio, tutto è presente. Credo che sei presente Tu, nato a Betlemme dalla Vergine, crocifisso sul Calvario, risorto il terzo giorno ed ora nella gloria alla destra del Padre. La tua Presenza, Signore, è misteriosa e invisibile; se anche non vedo nulla, se anche non sento nulla, credo fermamente, o Signore, che Tu sei realmente presente, perché Tu l’hai detto! Quando sei venuto in mezzo a noi, in terra di Palestina, la tua divinità era nascosta, la tua umanità era evidente. Ora, nel mistero eucaristico, rimane velata anche la tua umanità. Questo esige fede grande, reclama fede viva. Signore, accresci la mia fede, donami una fede che ama. Tu che mi vedi, Tu che mi ascolti, Tu che mi parli, illumina la mia mente perché creda di più; riscalda il mio cuore perché ti ami di più! La tua Presenza, mirabile e sublime, mi attragga, mi afferri, mi conquisti. In ginocchio professo la mia fede in Te: “Signore mio e mio Dio”!
Amen.