Omelia per la Messa di ringraziamento e canto del Te Deum

31-12-2017

Cari fratelli e sorelle,
il racconto evangelico della visita dei pastori alla grotta di Betlemme e dell’imposizione del nome di Gesù da parte dei suoi genitori Maria e Giuseppe ci offre l’opportunità di meditare sulla nostra autentica conoscenza di Gesù, che, ovviamente, non si ferma al semplice dato anagrafico. I pastori gioirono immensamente per aver trovato il bambino Gesù nella grotta di Betlemme e tornarono a casa manifestando apertamente la loro esultanza. Non poteva essere diversamente. Infatti, una gioia vera non può non essere comunicata e condivisa, perché è sempre contagiosa. Anche l’incontro con Gesù è fonte di gioia contagiosa, che deve essere manifestata e testimoniata con la vita.
Ora, siamo alla fine dell’anno, che, nella storia occidentale, viene computato a partire dalla nascita di Cristo, ossia dall’evento soprannaturale che ha dato un volto all’umanità intera. Ci possiamo esaminare, perciò, in che misura il Natale del Signore abbia dato un volto anche alla nostra vita, alla nostra persona, e che tipo di conoscenza di Gesù noi abbiamo acquisito. Ci possiamo domandare se l’allestimento del presepio, i canti popolari, le tradizioni natalizie ci abbiano reso più familiare, più vera, più sentita la conoscenza di Gesù, oppure no. Esiste indubbiamente una conoscenza storica, archeologica, geografica della vita di Gesù. Ma, se essa resta a questo livello, non incide più di tanto sulla nostra identità cristiana. E’ come se su Google o su Wikipedia cliccassimo la voce “Gesù” e ci vengono fuori tulle le informazioni possibili e immaginabili su di lui, la sua vita, i suoi miracoli, i suoi insegnamenti. Ma, una volta che abbiamo acquisito tutte queste nozioni, non abbiamo stabilito un rapporto personale con Lui. Le nozioni storiche e geografiche non aumentano il nostro amore a Gesù. Aumentano la nostra curiosità intellettuale senza che tocchino minimamente il cuore. E’ necessario, quindi, un altro tipo di conoscenza, che tocchi i pensieri e gli affetti, che crei inquietudini e consolazioni, che dia senso alla gioia e al dolore.
Tutti noi, cercatori di Dio per natura e vocazione, ci mettiamo spesso il problema di come trovare e incontrare Dio nella nostra vita. Alessandro Manzoni ha dato dignità letteraria alla dimensione umana della ricerca di Dio con la descrizione del famoso colloquio del Card. Federigo con l’Innominato: “L’innominato protesta col dire che non sa dove si trova questo «Dio» di cui sente parlare, ma Federigo gli ricorda che nessuno può saperlo meglio di lui, che lo sente in cuore, ne è tormentato e stimolato e, al tempo stesso, attratto da Lui, nella speranza di una consolazione purché egli ammetta le sue colpe e ne chieda perdono”. La sorpresa della fede cristiana, in queste circostanze, è scoprire che Dio ci cerca per primo, che Dio ha fatto il primo passo per venirci incontro, si è manifestato a noi nella persona del suo Figlio Gesù Cristo. A questo riguardo, è interessante notare che il verbo più importante della Bibbia non è “vedere”, ma “ascoltare”. Il credo del popolo ebraico inizia con l’invito “ascolta, Israele” (Dt 6, 4). La fede viene dall’ascolto, precisa San Paolo nella lettera ai Romani (Rm 10, 17). In ultima analisi, è sempre Dio che cerca noi, anche quando ci nascondiamo (Gn 3, 9: “Adamo dove sei?”). Egli ci chiama per nome, così come chiama per nome ogni stella del cielo (Sal 146, 4: “egli conta le stelle e chiama ciascuna per nome.”). Egli ci disegna sulle palme delle sue mani (Is 49, 16: “Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani”). Noi non comprendiamo Dio, perché, secondo S. Agostino, se lo comprendiamo non è più Dio, ma Dio ci conosce fino in fondo (Sal 139, 1-2: “Signore tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando seggo e quando mi alzo; penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo”).
Se il cristiano, secondo il teologo Karl Rahner, è un uditore della Parola, e, in modo particolare, della Parola fatta carne Gesù Cristo, si deve lasciare istruire e formare da Lui, cioè dal suo insegnamento, dal suo Vangelo. Il Vangelo deve diventare la sua regola di vita; deve offrirgli la tavola di valori che devono ispirare le sue scelte morali e spirituali. San Paolo esortava i cristiani di Filippi ad avere gli stessi sentimenti di Cristo (cfr. Fil 2, 5), ed affermava di vivere non per se stesso ma per Cristo: “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2, 20). Ogni cristiano dovrebbe dire altrettanto di sé. Nella lettera pastorale Osare il Vangelo ho scritto che il nostro rapporto personale con Gesù deve imitare il rapporto che intercorre tra due persone che si amano. Queste usano spesso le stesse espressioni, nutrono gli stessi sentimenti, condividono le stesse aspirazioni. Sono veramente unite, sono un cuor solo e un’anima sola. Se uno ha incontrato Gesù nella sua vita, nel senso che lo ha conosciuto, lo imita, lo prende come suo modello, lo lascia trasparire dai suoi sentimenti, dai suoi affetti, dai suoi ideali di vita veramente evangelica. Quando Mosè conversava con il Signore, la pelle del suo viso diventava raggiante (cfr. Es 34, 30); quando i discepoli conversavano con Gesù lungo la via, il loro cuore ardeva (cfr. Lc 24, 32). Lo stesso avviene nella vita del cristiano: se egli ha una profonda esperienza di Dio, la manifesta con la gioia spirituale del suo comportamento ed il linguaggio soprannaturale della fede.
Nel Vangelo ci sono molti episodi che raccontano il cambiamento della vita dopo che si è incontrato Gesù. Zaccheo, dopo aver incontrato Gesù ed averlo avuto come commensale, restituisce tutto quello che ha rubato (cfr. Lc 19, 8); l’esattore Levi, dopo aver ricevuto l’invito a seguirlo, senza chiedere spiegazioni rassicuranti, lascia la sua professione e segue Gesù (cfr. Mc 2, 14); la donna adultera, perdonata e rispettata nella sua dignità, abbandona la vita di peccato (Gv 8, 1-11). Nello stesso Vangelo, però, c’è anche un episodio che ci dovrebbe far riflettere molto. San Luca scrive che mentre Gesù passava per città e villaggi, insegnando e camminando verso Gerusalemme, “un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Rispose: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete!” (Lc, 13, 23-27).
Cari fratelli e sorelle,
sarebbe triste che anche a noi un giorno Gesù dicesse: “non vi conosco; non so di dove siete”. Voglio augurarmi ed augurarvi, allora, che il nostro rapporto con Gesù sia sempre espresso dalla confessione di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 69). Inginocchiamoci ancora una volta davanti al presepio e rinnoviamo la nostra fede nel Dio fatto uomo con l’invocazione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16).
Amen.