Omelia per la Messa di ringraziamento nel 50° di sacerdozio

12-03-2017

Cari fratelli e sorelle,

siate tutti cordialmente benvenuti in questa chiesa cattedrale per ringraziare il Signore, insieme con me, per il dono di 50 anni di sacerdozio. Come sapete, davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo (2Pt 3, 8). Ossia, davanti al Signore c’è solo il presente; non esiste il tempo come misura delle cose. Il passato è storia e il futuro è promessa. La grandezza del sacerdozio, quindi, non sta nel numero degli  anni in cui viene esercitato, ma nel fatto stesso di esserci. Perciò, non si dovrebbero festeggiare solo gli anniversari a due cifre, ma, di per sé, anche quello d’un solo giorno. Ci sono stati sacerdoti d’una sola messa e anche questi sono sacerdoti in eterno. Un prete tedesco del Movimento di Schoenstatt cui appartengo, il beato Karl Leisner, è stato ordinato nel campo di concentramento di Dachau ed ha fatto in tempo a celebrare una sola messa prima di morire vittima del nazismo. In ultima analisi, il numero degli anni dovrebbe contare solo per misurare il grado di responsabilità che si è avuta nell’annuncio del Vangelo e nella pratica della misericordia.

Ora, la mia ordinazione presbiterale di 50 anni fa non ha documenti fotografici. Per uno strano destino non dispongo d’una sola fotografia dell’ordinazione e della prima messa nella chiesa parrocchiale di Orune. Attestano il mio sacerdozio, perciò, le tante persone conosciute e sconosciute, vicine e lontane, che hanno ricevuto grazia, consolazione, discernimento dal mio ministero di verità e carità. Sono state tante le occasioni in cui ho sperimentato il peso soprannaturale dei miei gesti di sacerdote, soprattutto quelli con il potere di assolvere e consacrare. Solo Dio conosce quante ferite sono state sanate, quante persone hanno ritrovato la gioia dell’amore, quanti sogni sono stati benedetti!

In realtà, i gesti e le parole del sacerdote sono i gesti e le parole di cui Dio ha bisogno per rivelarsi come amore, per comunicare fiducia nella vita, per aiutare a guardare sopra il sole, dove non c’è nulla di uguale a prima, nulla che si ripeta in un ciclo monotono, ma dove hanno origine i miracoli della grazia divina, che non vengono riportati dalla cronaca dei giornali, ma che sono sperimentati nel silenzio e nel riserbo dell’anima. I gesti del sacerdote sono i canali della grazia. Le mani “sante e venerabili” con le quali Gesù prese il pane, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli, per incanto, si moltiplicano in tante mani di sacerdoti che celebrano i sacramenti, liberano le persone dal peso della colpa e del peccato, le consolano nella malattia, le incoraggiano nel lavoro, le accompagnano nei momenti della prova. Nella mia vita di sacerdote, ho imparato a considerare ogni patria una terra straniera e ogni terra straniera una patria. Ho passato 36 anni a insegnare  e scrivere sulla persona di Gesù il Nazareno e sul destino dell’uomo immagine di Dio. Ora, poiché il cristianesimo non è una materia scolastica ma un’esperienza di vita, è giunto il tempo, e la conclusione del mio ministero episcopale me ne da occasione, di passare dalla dimostrazione all’evocazione, e di trasformare l’oggetto dello studio nella semplice preghiera: Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me. Dalla cattedra ho parlato di Dio, dalla scuola della vita parlo a Dio. Papa Francesco, in un’omelia della Cappella Sistina, ha scritto una bella pagina di teologia dell’incarnazione dicendo che la prima predica di Gesù è stata il suo pianto di bambino nella stalla di Betlemme.

La liturgia della Parola che anima la nostra celebrazione ci fa riflettere su un episodio della fine del ministero pubblico di Gesù: la sua Trasfigurazione. Sul Monte Tabor, Gesù porta con sé i discepoli più fidati: Pietro, Giacomo, Giovanni. In precedenza, aveva affrontato controversie con le diverse istituzioni sacerdotali e politiche, aveva guarito molti malati, perdonato molti peccatori, ma anche deluso i discepoli, perché questi avevano visto svanire speranze di ricchezza e di potere. Poiché sa che la sua passione e morte procureranno paura e abbandono, vuol assicurare i suoi discepoli che andrà sì incontro alla passione e alla morte, ma che risorgerà dai morti il terzo giorno. Di fatto, Gesù non li convince, perché il comportamento di Pietro sarà scoraggiante. Prima, nell’orto degli Ulivi, vorrà difenderlo con la spada, e poi, al Sinedrio, lo tradirà davanti alla provocazione della pettegola di turno. La comparsa di Mosè ed Elia, che parlano “della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (Lc 9,31), ricorda loro che la passione e la morte erano già state previste dai profeti dell’Antico Testamento (Cfr. Lc 24,27). Quindi, la passione di Gesù è secondo la volontà del Padre, ma è solo l’anteprima della futura venuta nella gloria, nella quale Cristo “trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21).

 

Oggi come ieri, però, il dramma della Chiesa, che S. Agostino vede raffigurata in questo evento, consiste nel fatto che essa è tentata di rimanere sul monte, per difendere la sua posizione di potere dottrinale e i suoi confini canonici, rinunciando a scendere a valle, negli “Ospedali da campo”, per condividere le sofferenze della gente. La realtà ultima è il Regno di Dio e l’esistenza cristiana si gioca tutta nella sfera del penultimo, tra il già e il non ancora, il già del pellegrinaggio verso il Regno e il non ancora dell’avvento di questo Regno. Nella preghiera insegnataci da Gesù, il Padre Nostro, noi ripetiamo ogni giorno: “venga il tuo Regno”! Perciò, il cristiano è un pellegrino verso il Regno, cittadino futuro della Gerusalemme celeste, ma inquilino precario della patria terrena. Papa Francesco ci esorta continuamente ad uscire dal recinto delle nostre sicurezze, a tentare nuove vie, anche a costo di inciampare e sbagliare nelle scelte personali e comunitarie, perché è meglio “una chiesa incidentata” che una chiesa separata dalla gente e dai suoi problemi.

 

Cari fratelli e sorelle,

 

come ho scritto 50 anni fa nel libretto con cui partecipavo la mia ordinazione presbiterale e prima messa, non mi resta che dire grazie al Signore Gesù e grazie alla Vergine Maria. Lo voglio ripetere con una preghiera insieme a voi, perché il mio sacerdozio è anche vostro: della vostra fede, del vostro cammino di santità e del vostro amore al Vangelo.

 

O Gesù: fratello, amico, salvatore, / m’hai chiamato a seguirti alle luci dell’alba, / m’hai inviato a lavorare nella tua vigna,/dove c’erano mani tese e cuori feriti,/nascevano amori e morivano speranze./Con Te ho consacrato, benedetto, perdonato,/ho piegato il cielo nelle stanze degli ospedali,/ho dato coraggio a chi cercava futuro./Tramonta il sole, ma è ancora un mistero/ la tua chiamata e la mia risposta./O Signore, dammi la pace che ho donato agli altri,/dammi il perdono che ho dato nel tuo nome,/resta con me, nella gioia e nel pianto./ Vergine Madre Maria, stella del mio ministero,/ prega per noi ora e sempre.

 

Amen.