Omelia per la Messa in Coena Domini

29-03-2018

Cari fratelli e sorelle,

“Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.  “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. “Se, dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri”.

In questi tre passi biblici si compendia il significato della celebrazione di questa sera. Anzitutto, il libro dell’Esodo ricorda l’evento della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto, operata dalla potenza di Dio. La memoria di questo evento viene celebrata come una festa di gioia e di gratitudine per il dono della libertà. San Paolo riferisce l’ultima cena che Gesù tenne con gli apostoli prima di essere arrestato e condannato a morte. La Chiesa la considera come l’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio. Ogni volta che celebra l’Eucaristia essa annuncia il mistero della morte e della risurrezione di Gesù. San Giovanni riporta l’episodio della lavanda dei piedi. Questo racconto dell’Evangelista vuole sottolineare che il vero memoriale dell’ultima cena è la pratica della carità. Possiamo ora sintetizzare il messaggio di questi tre passi biblici con tre parole: festa, memoria, carità. I tre contenuti del messaggio sono tutti presenti nella celebrazione del giorno del Signore, ossia della domenica, considerata dalla Chiesa come l’edizione settimanale della Pasqua.

Gli stessi contenuti li troviamo nella nota pastorale dei Vescovi Italiani su Il Giorno del Signore, del 1984: “Sorretta e animata dallo Spirito, la Chiesa, attraverso i secoli, ha conferito alla domenica una fisionomia assai viva e ben caratterizzata: giorno dell’Eucaristia e della preghiera, giorno della comunità e della famiglia, giorno del riposo e della festa, giorno della libertà dalle cure e dalle fatiche quotidiane (specie per i più poveri, i servi, gli schiavi) nell’anticipazione della libertà ultima e definitiva dalla servitù e dal bisogno. In questo modo la domenica cristiana ha recuperato e fatto propri anche alcuni dei caratteri del sabato ebraico. Inoltre, essa è divenuta il giorno in cui dedicarsi più largamente alle opere di carità e all’insegnamento religioso”.

Ovviamente, l’Eucaristia non può ridursi alla celebrazione d’un rito. Questo dovere lo si può adempiere in poco più d’una mezzora di tempo alla settimana. Ma la celebrazione dell’Eucaristia e la pratica della carità non hanno limiti di tempo, non sono cartellini da timbrare per osservare l’obbligo del precetto domenicale. Devono diventare stili di vita, modi di essere. La comunione eucaristica, ha ribadito Papa Francesco nella catechesi dell’altro giorno, “ci fa offrire tutto noi stessi a Gesù, perché ci “converta in Lui”, così da divenire un’unica cosa in Lui, tanto da poter dire con l’Apostolo Paolo: “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2, 20). Il grado massimo della comunione l’hanno raggiunto i santi, ma dobbiamo tendere a raggiungerlo anche noi. “Ogni volta che noi facciamo la comunione, assomigliamo di più a Gesù, ci trasformiamo di più in Gesù. Come il pane e il vino sono convertiti nel Corpo e Sangue del Signore, così quanti li ricevono con fede sono trasformati in Eucaristia vivente”. È chiaro che siamo fragili, precari, incostanti, esposti alla tentazione e al peccato, e possiamo rompere questa comunione con Gesù. Ma essa può venire sempre ricuperata. Il Papa, a questo riguardo, nella catechesi, ha citato un’espressione di Sant’Ambrogio: “Io che pecco sempre, devo sempre disporre delle medicine”.

Per capire il senso del gesto compiuto da Gesù con la lavanda dei piedi ai suoi apostoli, bisogna tener presente che a quell’epoca si camminava a piedi su strade polverose e fangose. Quando si arrivava in una casa era un dovere di ospitalità lavare i piedi, come faceva lo schiavo verso il padrone, la moglie verso il marito, il figlio verso il padre. Nel racconto di S. Giovanni, S. Pietro non comprese subito il simbolismo del gesto di Gesù e, perciò, gli disse: “Non mi laverai mai i piedi”. Ma Gesù, che conosceva la sua impulsività, gli rispose: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Di fronte a questa minaccia, Pietro si affrettò a dire: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!” In ultima analisi, il gesto di Gesù è una grande lezione che egli dà ai discepoli di tutti i tempi, i quali dovranno seguirlo sulla via della generosità totale nel donarsi, non solo verso le abituali figure del padrone, del marito, del padre, ma anche verso tutti i fratelli in umanità.

Oggi, secondo i Vescovi italiani, il gesto di ospitalità ci viene richiesto dal fenomeno globale delle migrazioni, “da affrontare con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese”.

Tuttavia, le paure, i pregiudizi, le diffidenze si possono vincere con l’incontro, il dialogo, la relazione. “È un cammino esigente e a volte faticoso a cui non possiamo sottrarci, perché ne va della nostra testimonianza evangelica, scrivono i Vescovi. Si tratta di riconoscere l’altro nella sua singolarità, dignità, valore umano inestimabile, di accettarne la libertà; significa riconoscere la sua differenza di sesso, età, religione, cultura, e desiderare di fargli posto, di accettarlo. Tutto ciò senza rinnegare la nostra cultura e le nostre tradizioni, ma riconoscendo che ve ne sono altre ugualmente degne. Scopriremo una ricchezza inaspettata: occhi nuovi per guardare realtà note; tradizioni e abitudini diverse che aiutano a valutare le nostre; sofferenze patite che ci rivelano quanto accade lontano da noi.”

 

Cari fratelli e sorelle,

“La civiltà ha fatto un passo decisivo, ha scritto il cardinale Jean Daniélou, il giorno in cui lo straniero, da nemico è divenuto ospite. Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo”. È il passo dell’ospitalità che dobbiamo compiere, non dimenticando che “alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2).

Concludo con una preghiere della Serva di Dio Madeleine Delbrel: Il catino di acqua sporca

Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca. Girare il mondo con quel recipiente e ad ogni piede cingermi dell’asciugatoio e curvarmi giù in basso, non alzando mai la testa oltre il polpaccio per non distinguere i nemici dagli amici e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato, del carcerato, dell’omicida, di chi non mi saluta più, di quel compagno per cui non prego mai, in silenzio, finché tutti abbiano capito nel mio il tuo Amore.