Omelia per la Veglia Pasquale

31-03-2018

Cari fratelli e sorelle,

le parole predominanti di questa celebrazione sono “liberazione” e “luce”. Si fa memoria della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto e si inneggia alla “luce del Re eterno che ha vinto le tenebre del mondo”. Abbiamo cantato: “il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l’odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace”. Ma queste parole e questo canto descrivono un mondo possibile o il nostro mondo reale, una speranza promessa o una realtà vissuta? Ci chiediamo se siano veramente sconfitti la fame, la guerra, l’indifferenza, l’egoismo; se domini veramente la pace e la concordia nei nostri paesi, nelle nostre famiglie, nelle nostre relazioni sociali, oppure se, in realtà, viviamo nella paura, nell’insicurezza, nel rancore sociale. Chi può intonare il canto di liberazione? Dobbiamo appendere le nostre cetre ai salici, come fecero gli ebrei sui fiumi di Babilonia (Sal 136), lontani dalla loro patria e privati della loro libertà, o continuare a sperare nella potenza della luce che sconfigge le tenebre? Possiamo accogliere l’invito dell’angelo seduto presso la tomba a non aver paura, perché Cristo è veramente risorto (Mc 16, 6)? I racconti biblici che abbiamo ascoltato hanno descritto le potenti opere di Dio che hanno sconfitto le forze del male, e, quindi, ci dimostrano che come è stato possibile liberare “con mano potente e braccio teso” gli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto (Dt 6, 21), sarà ancora possibile liberare tutti noi dalla schiavitù del male e della morte.

Ora, la veglia pasquale che stiamo celebrando fa memoria in modo particolare del passaggio del Mar Rosso da parte del popolo ebraico. Con questa memoria, la Pasqua viene simboleggiata come un passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà della grazia. Il simbolo della schiavitù è l’Egitto. Il simbolo della libertà è la terra promessa. Nell’evocazione di questo evento, quindi, assume un’importanza particolare il legame con la terra. Gli Ebrei, per esempio, contestarono Mosè e Aronne per averli fatti uscire dall’Egitto, e rimpiangevano la permanenza nella terra della schiavitù (Es 17, 1-7). In Egitto, essi erano stanziali e avevano una terra. Usciti dall’Egitto, invece, essi sono nomadi senza fissa dimora. Quando, sotto la guida di Giosuè, essi si stabilirono in Palestina, il paese fu suddiviso in undici parti, così che ogni tribù ebbe il suo territorio, perché non si può vivere  senza il legame con la terra (cfr. Gs 14, 1-5). Abbiamo bisogno di un luogo dove abitare, al quale legare i nostri ricordi, i nostri sentimenti, le nostre relazioni ed amicizie. In ultima analisi, terra vuol dire identità. Il nuovo ministro dell’interno del Governo Tedesco vuole cambiare il nome al ministero e chiamarlo “Ministero della Patria”. Per molti personaggi, il luogo di nascita diventa un cognome. Pensiamo a San Francesco di Assisi, Santa Caterina da Siena, Sant’Ignazio da Laconi, Beato Nicola da Gesturi. Abbiamo bisogno, dunque, di una terra, per definire la nostra identità. Si mettono a dimora le piante e, in qualche modo, si mettono a dimora anche gli uomini in una famiglia, un paese, una nazione.

Secondo la Lettera agli Ebrei, però, il nostro insediamento, ossia la nostra messa a dimora è nei cieli. Noi, infatti, non abbiamo una stabile dimora su questa terra, ma ne cerchiamo una futura (Eb 13, 14). Ciò equivale a dire che siamo nati per guardare il cielo, che dal cielo prendono colore le nostre aspirazioni, i nostri progetti, le nostre gioie e i nostri dolori. Perciò, dobbiamo liberarci dalle abitudini del peccato, dell’egoismo, della rassegnazione. Dobbiamo passare dalla paura al coraggio, dal dubbio alla fede. Questo è per noi Pasqua, cioè passaggio. San Paolo scrive che noi dobbiamo svestirci dell’uomo vecchio e rivestirci dell’uomo nuovo (Col 3, 9). San Giovanni presenta Gesù come colui che porta la luce nel mondo, per illuminare le menti di ogni uomo (Gv 8, 12). Lasciamoci, allora, illuminare dalla luce di Cristo. Il cero pasquale che abbiamo acceso è il segno del Cristo risorto, luce vera del mondo che illumina ogni uomo; luce della vita che impedisce di camminare nelle tenebre; segno della vita nuova in Cristo che strappa dalle tenebre e trasferisce i credenti nel regno della luce.

Il cero pasquale che abbiamo acceso questa notte sarà acceso durante i cinquanta giorni del tempo di Pasqua, fino al giorno di Pentecoste, quando verrà spento. La liturgia, però, prevede che esso venga acceso anche in altre celebrazioni, come l’amministrazione del sacramento del battesimo o il rito delle esequie, per ricordarci che la risurrezione di Cristo illumina non solo il tempo pasquale ma l’intera esistenza della vita umana, compreso il passaggio drammatico della morte.

Quando si accese la discussione sulla data della Pasqua, S. Giovanni Crisostomo affermò che Cristo non ha prescritto nulla in proposito, ma “ha fatto tutto perché vivessimo nella pace e fossimo congiunti gli uni agli altri”. Egli affermò, inoltre, che ogni Eucaristia è Pasqua, e, quindi, non è la data della celebrazione che conta, ma la testimonianza della carità e della santità.

Cari fratelli e sorelle, vi auguro di vivere la Pasqua non come una data dell’anno ma come testimonianza della vita, nell’esercizio della carità e nel cammino della santità. Amen.