XXVII Domenica del Tempo Ordinario. Il commento al Vangelo

Il vangelo

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: Accresci in noi la fede! Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Lc 17,5-10


Il commento

Quanta paura al pensarci inutili, incapaci… Tutti noi, abituati alle corse quotidiane, sperimentiamo qualche volta, quello smarrimento strano di quando all’improvviso si presenta un momento in cui non abbiamo nulla da fare! Siamo infatti programmati al fare, e, a meno che la stanchezza non ci tagli le gambe, proviamo un vuoto o quasi un senso di colpa, se rimaniamo senza qualcosa di cui occuparci. Come se la nostra identità si dovesse costruire e mantenere in piedi a partire dal nostro fare…

Eppure Gesù ci suggerisce che beati sono quei servi che sanno essere inutili, che cioè sanno dire: ecco, ora ho finito, non devo cercare altri motivi per correre ancora. Sì, ci vuole il coraggio per essere inutili. Inutili, inutilizzabili, senza utilità. È una prima trappola, perché in realtà la nostra vita non è da utilizzare.

E non abbiamo il diritto di usurarla né noi, né gli altri. Siamo stati fatti invece per stare, inutilmente davanti al Signore, per lasciarci riempire da Lui. Per lasciar agire Lui. Riposare in Lui, in questo senso, è indispensabile per saper invece servire davvero, quando è tempo di servire. Perché se è vero che si impara a servire, servendo, è altrettanto vero che si serve con tutto se stessi, quando la condizione ordinaria di vita non è quel vortice del fare, che poi si rivela un modo di fuggire dal senso vero dell’essere inutili, cioè dalla gratuità.

C’è poi anche l’altro nemico: il sentimento di incapacità e di incompetenza. Gli altri fanno, io no, perché quello non lo so fare. Mi sento male con questo? C’è qualcuno che compie quasi miracoli, cose che vengono ammirate da altre persone. Forse qualcosa, appunto, che fa pensare a quel gelso che si sradica e si pianta nel mare. Io non lo so fare. Lo so accettare serenamente, il fatto che ho bisogno dell’altro e ho bisogno soprattutto dell’Altro? O penso che posso arrivare dovunque con un mio personale fai-da-te?

Che bello sarebbe, se vivessimo la nostra attività con la consapevolezza di poter far crescere il mondo insieme. Dove io non arrivo, ci arrivi tu. Dove non arriviamo noi, ci arriverà Dio. Da non dimenticare però, che se il lavoro è il prolungamento e la partecipazione all’opera della sua creazione, allora è legittimo ciò che Egli fece, quando si fermò nel creare e vide che tutto ciò che fece era una cosa buona. E questa bontà e bellezza si possono scorgere solo se l’animo si ferma sull’importanza dell’essere che viene prima del fare.

A cura di Agata Pinkosz, missionaria

Pubblicato su L’Arborense n. 33 del 2022