XIX Domenica del Tempo Ordinario: l’approfondimento della Parola.

La sua salvezza è vicino a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Così il salmo responsoriale ci fa rispondere alla prima lettura e ci introduce al vangelo. Una speranza che non osa solamente guardare al futuro con positività e apertura di cuore, ma che traspira di certezza nell’intervento del Signore. L’intero salmo è intessuto di slancio di fede nei confronti di Dio, che agisce concretamente a favore del suo popolo. Lo sguardo alla storia passata non può che spingere alla fede in un Dio che si occupa di chi ama, donando le sue virtù: misericordia e verità, giustizia e pace.

La prima lettura offre uno splendido affresco del più grande profeta dell’Antico Testamento: Elia. Il profeta coraggioso e gagliardo, che ha sfidato il re e la regina, che ha ucciso centinaia di profeti idolatri, che ha percorso strade pericolose, si mostra finalmente umano: ha paura. Elia scappa e cerca un rifugio sicuro da Gezabele che lo vuole uccidere. Una grotta diventa la sua rupe sicura e il predellino dal quale ammirare il passaggio di Dio. Gli elementi consueti della teofania (vento, terremoto e fuoco) sono vuoti. Direbbe Qohelet, sono pieni di vanità. Non mostrano Dio, non lo introducono, non lo veicolano. Ciò che la religiosità antica aveva accreditato come segni divini, ora è vuoto e senza significato. Essi possono far intimorire l’uomo, ma non assicurano la presenza di Dio. Chi cerca un Dio impetuoso, prepotente, sfavillante, intimoritore deve farsene una ragione: o cerca altrove ciò che risponde ai suoi criteri o accoglie Dio, Padre. Elia incontra Dio nella brezza leggera, in un mormorio soave. Elia non scappa, ma si presenta a Dio fermandosi davanti all’ingresso della caverna. Segno che la presenza di Dio non atterrisce, ma incoraggia e smuove dal torpore della paura. La parola di Dio, non temere ha questa forza intrinseca: permette di andare, di uscire, di agire.

Anche la lettera ai Romani testimonia questa forza divina in Paolo: Vorrei essere io stesso essere anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei consanguinei. Paolo sa bene quanta forza occorra nel ministero e nell’evangelizzazione e tale forza non può essere generata dall’apostolo, ma attraverso di lui può essere comunicata e donata. Così Paolo, senza paura, invoca paradossalmente l’allontanamento per sé a favore dei suoi fratelli.

Nel vangelo due sono le voci protagoniste del racconto/dialogo: Gesù e Pietro. Una grande tempesta sul lago (simbolo rafforzato delle forze del male che tentano e coinvolgono l’uomo) sconvolge i dodici, dopo che Gesù li aveva nutriti e ammaestrati. Sono molto indicative le sottolineature circa la sera e la notte in cui si svolge la scena: evidentemente coinvolgono anche lo spirito buio e provato dei discepoli, oltre che elementi temporali e cronologici. Quella tempesta si sente maggiormente nella sera della vita e incute terrore nella notte dell’esistenza. Non basta aver mangiato il pane in abbondanza, aver visto il miracolo, aver sfamato migliaia di persone per essere radicati in Cristo, occorre aver in lui fiducia, riporre in lui la propria esistenza in pienezza. Il grido è un fantasma tratteggia la drammaticità del momento e della relazione. Occorre la voce rassicurante e programmatica di Gesù: non abbiate paura. Non si tratta del timore di un bambino per il buio, per un animale immaginario, per un qualcosa di fisico (questo timore passa in fretta), ma del senso di angoscia che pervade l’esistenza di chi la sente e la sa vuota.

Chi non sa dove appigliarsi, chi si sente sballottato dalle onde, chi vive senza un punto fermo rischia di passare da una paura ad un’altra, segni di quella maggiore dell’essere senza radici. Ecco Pietro: ha il coraggio di chiedere a Gesù di venire da lui, ma affonda velocemente. Non è questione di grandezza o piccolezza quantitativa della fede, ma si tratta di una mancanza di solidità della fede. Non sa dove mettere in piedi. La voce di Gesù incoraggia, esorta, smuove, ma il passo di Pietro è troppo pesante. Uomo di poca fede è espressione che dice il cammino che Pietro, i discepoli e noi dobbiamo fare con Gesù: la fiducia. Al termine del vangelo il riconoscimento dei discepoli che Gesù è davvero Figlio di Dio è ancora legato al fenomeno, al prodigio, al miracolo. Manca ancora tanto cammino prima di giungere alla croce come segno autentico della fiducia di Gesù nei confronti del Padre: testimonianza che cambia davvero la vita, la storia, la Chiesa, l’umanità.

A cura di Michele Antonio Corona.