Fine vita. Intervista a don Bruno Bignami

A margine dell’incontro avuto con il Clero arborense il 23 febbraio 2022, abbiamo intervistato don Bruno Bignami, Direttore dell’Ufficio Pastorale Sociale della CEI, per approfondire alcuni aspetti trattati nella sua relazione dal titolo Vivere da credenti il fine vita. Il dibattito sul suicidio assistito e l’eutanasia.

Durante l’udienza del 9 febbraio papa Francesco ha parlato ancora una volta del fine vita. L’equilibrio tra accanimento terapeutico, eutanasia, suicidio e fine vita, è al centro della Legge che stanno preparando nel nostro Parlamento. Che cosa ne pensa a riguardo? Cosa ci sta indicando la Chiesa in questo momento?  

Stiamo vivendo un passaggio culturale molto delicato, importante e, come credenti, dobbiamo iniziare ad abitare questo tempo con senso di responsabilità portando a nostra volta un contributo. Tuttavia ho l’impressione che ci sia molta confusione e molta difficoltà nella capacità di discernere ciò che accade. Dobbiamo abitare questo tempo non con la pretesa di comandare gli altri ma offrendo spunti utili per il discernimento delle coscienze e aiutandole a vivere consapevolmente questa stagione. Tra le questioni problematiche rientra la visione della vita in termini di qualità e la sua valutazione utilitaristica. Questo ci spinge gradualmente a mettere in discussioni quelli che sono i punti cardine dello sguardo sulla vita, del discorso sulla dignità e sulla persona umana nella sua interezza e non partendo da ciò che ognuno di noi può fare o meno. Quindi questo è il punto cardine su cui insiste il Magistero della Chiesa aiutandoci a capire quali siano i punti su cui bisogna tenere fermo il polso. Al giorno d’oggi dobbiamo portare una proposta di vita bella sia dal punto di vista culturale e sia nel dibattito pubblico. Dobbiamo ricordare che la vita dei credenti è una testimonianza di amore per la vita. Questo è un punto forte da capire e da cui partire nel dialogo e nel confronto con le altre culture in cui talvolta si arriva allo scontro. Mi domando se davvero come cristiani possiamo offrire una testimonianza bella di vita.

Papa Francesco dice che dobbiamo lavorare per il diritto alla vita e non per il diritto alla morte. È vero che sia alla base della preparazione di questa legge in Italia, sia in alcune culture internazionali sembrino battersi più per il diritto alla morte?  

Questo è il contesto umano e attuale in cui viviamo. Ma se guardiamo al Vangelo ci rendiamo conto di come Gesù abbia trattato certe situazioni portando speranza e prospettive di vita anche in quei contesti in cui lo sguardo era orientato alla morte. Pensiamo all’episodio dell’uomo posseduto da spiriti immondi che vaga in mezzo ai cimiteri. Questa rappresenta una delle più grandi tentazioni dell’uomo, che tende a praticare maggiormente l’esperienza della morte. Pensate, esiste una filosofia che afferma che l’uomo sia fatto per la morte e seguendo questo pensiero ci dimentichiamo che invece siamo fatti per la vita che, per chi crede, è eterna. Questo aggettivo dice nulla sull’utilizzazione della vita fisica ma, nel caso di accanimento terapeutico, ci aiuta a renderci consapevoli che non possiamo stare attaccati a macchine perché vogliamo vivere. Si tratta di accettazione della vita e della morte come passaggio fondamentale nella relazione profonda con Dio creatore.

Sono trascorsi 5 anni dall’approvazione delle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento). Crede che per la Chiesa e gli assistenti religiosi sia possibile fare di più in termini di formazione e informazione? È vero che purtroppo siamo fermi nella campagna formativa e informativa?

Sì, anche se possiamo usare come giustificazione per il rallentamento la pandemia. Anche questa non ci ha permesso di cogliere occasioni per fare scelte coraggiose quando invece sarebbe bello aiutarci, in questi passaggi storici, a cogliere le occasioni. Anche nell’incontro con i laici si percepisce la loro sete di capire.

Lei è un un teologo morale: che cosa l’ha chiamata a seguire questa strada?  

La decisione di studiare Teologia Morale è nata nel contesto dell’esercizio sacerdotale. Ho iniziato spinto dal discernimento del mio vescovo riguardo le necessità nella diocesi in quel momento ma anche a seguito di un discernimento personale. Inizialmente, quindi, è stato un gesto di obbedienza ma nella fede non possiamo che cogliamo le opportunità nate dalle scelte iniziali. La teologia morale è diventata occasione di dialogo culturale con il mondo e con la filosofia e possibilità di creare una proposta che, nel nostro tempo, sia in grado di interpretare il vissuto umano.

Non pensa che negli ultimi 50 anni la Teologia Morale abbia subito troppo l’influenza canonistica, tendente all’oggettivismo, e abbia invece bisogno di aprirsi maggiormente alla spiritualità?

È necessario aprirsi alla spiritualità e alla centralità del soggetto che agisce. A riguardo ci sono stati approfondimenti molto interessanti in campo teologico ma la parte più faticosa è la loro ricezione e gestione nei tessuti ecclesiali della questione che coinvolge tutti i tempi e che ritroviamo nei fratelli Karamazov di Dostoevskij: la gestione della libertà. Purtroppo anche dal punto di vista ecclesiale talvolta facciamo fatica ad accettare e applicare il concetto di soggetto libero che discute e cerca, che si mette protagonista nella storia e non aspetta di trovare la pappa pronta su cosa fare responsabilizzandosi. L’affidare la coscienza a qualcuno per stare tranquilli è un fenomeno che coinvolge ogni strato sociale e ogni tempo ma noi dobbiamo vivere l’esperienza della responsabilità giorno per giorno.

Intervista a cura di p. Fabrizio Congiu, ofm cap

Pubblicato su L’Arborense n. 8 del 6 marzo 2022