Liturgia. Riflessioni sull’estetica del Concilio

Lo scorso 9 giugno negli ambienti clericali ha fatto grande scalpore l’affermazione del Papa che esortava vescovi e presbiteri siciliani a rinnovare la “moda liturgica” secondo la riforma avviata dal Concilio Vaticano II. Come lo stesso Papa ha detto, anche le vesti rientrano nell’ordine dell’arte liturgica e quindi dell’estetica liturgica. Tuttavia, non è semplice dare una definizione esaustiva di quella che potremmo chiamare “estetica del Concilio”, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento liturgico. Anche gli studi su questo ambito sono alquanto rari, prevalentemente con un taglio storico. L’attenzione degli studiosi si è incentrata maggiormente sull’estetica del rito (che riguarda gesti, parole, musica, spazio e tempo) ed il recupero della cosiddetta “verità dei segni”. Alla base dell’affermazione magisteriale del Pontefice credo ci sia la definizione della liturgia romana come contraddistinta da una “nobile semplicità”. Questa definizione ha avuto origine nel settecento in ambiente neoclassico sia per definire l’arte greca, sia, soprattutto, in contrapposizione alle bizzarrie del barocco.

Nei presenti appunti affronterò due ambiti: l’estetica dell’aula liturgica e l’estetica delle vesti liturgiche. Entrambe le trattazioni, che contengono solo spunti di riflessione, hanno come ordito i due concetti richiamati precedentemente: la verità dei segni e la nobile semplicità[1]. Queste realtà sono come un binario che aiutano nella continua riscoperta della bellezza e della verità del celebrare cristiano[2] e richiedono una costante e permanente formazione alla liturgia e spingono ogni cristiano a lasciarsi educare dalla liturgia grazie alla sua ricchezza simbolica [3].

L’estetica dell’aula liturgica

In questa sede non sto a ripercorrere tutta l’evoluzione dell’aula liturgica dalle domus ecclesiae alle attuali chiese in quanto ci vorrebbe un trattato dedicato ad ogni luogo liturgico. Procederò prevalentemente ad una compilazione di ciò che è contenuto nell’Ordinamento Generale del Messale Romano (=OGMR) e nelle Precisazioni della CEI (=CEI).

  • L’Altare
  1. E’ il centro dell’azione di grazie e deve costituire realmente il centro verso il quale spontaneamente converga l’attenzione dei fedeli. Significa alla comunità dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della Chiesa (OGMR 296. 299. 303).
  2. L’altare fisso significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (OGMR 298).
  3. Sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (OGMR 299).
  4. Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare non può essere rimosso o adattato, si costruisca un altro altare fisso. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l’attenzione dei fedeli dal nuovo altare. L’altare antico e gli altari laterali non vengano coperti con le tovaglie (OGMR 303; CEI 15.).
  5. Si distenda sopra l’altare sul quale si celebra almeno una tovaglia di colore bianco, che sia adatta alla struttura dell’altare per la forma, la misura e l’ornamento[4]. (OGMR 304)
  6. Nell’ornare l’altare si agisca con moderazione. L’ornamento dei fiori sia sempre misurato, adatto al tempo liturgico e, piuttosto che sopra la mensa dell’altare, si disponga attorno ad esso. (OGMR 303. 305).
  7. I candelabri siano collocati o sopra l’altare, oppure accanto ad esso, tenuta presente la struttura sia dell’altare che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare. I candelieri siano due, quattro o sei in base al carattere della celebrazione; se presiede il vescovo diocesano siano sette (OGMR 117. 307). CEI 15 prescrive che siano sobri per numero e dimensione.
  8. Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato. Conviene che questa croce rimanga vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche. I candelieri e la croce possono essere portati durante la processione d’ingresso (OGMR 308. 117).
  • L’Ambone

L’importanza della parola di Dio esige che vi sia nella chiesa un luogo adatto dal quale essa venga annunciata, e verso il quale, durante la Liturgia della Parola, spontaneamente si rivolga l’attenzione dei fedeli.

Conviene che tale luogo generalmente sia un ambone fisso e non un semplice leggio mobile. L’ambone, secondo la struttura di ogni chiesa, deve essere disposto in modo tale che i ministri ordinati e i lettori possano essere comodamente visti e ascoltati dai fedeli. (OGMR 309)

  • La Sede

La sede del sacerdote celebrante deve mostrare il compito che egli ha di presiedere l’assemblea e di guidare la preghiera. Perciò la collocazione più adatta è quella rivolta al popolo, al fondo del presbiterio, a meno che non vi si oppongano la struttura dell’edificio e altri elementi, ad esempio la troppa distanza che rendesse difficile la comunicazione tra il sacerdote e i fedeli riuniti, o se il tabernacolo occupa un posto centrale dietro l’altare. Si eviti ogni forma di trono. (OGMR 310)

  • La custodia della Ss.ma Eucaristia
  1. Il tabernacolo sia collocato in una parte della chiesa assai dignitosa, insigne, ben visibile, ornata decorosamente e adatta alla preghiera (OGMR 314).
  2. E’ più conveniente che il tabernacolo non sia collocato sull’altare su cui si celebra la Messa. Conviene quindi che sia collocato, a giudizio del Vescovo diocesano: o in presbiterio, non però sull’altare della celebrazione, nella forma e nel luogo più adatti, non escluso il vecchio altare che non si usa più per la celebrazione (Cf. anche n. 303 che prescrive di non ornarlo con particolare cura); o anche in qualche cappella adatta all’adorazione e alla preghiera privata (OGMR 315).
  3. Presso il tabernacolo rimanga sempre accesa una lampada, alimentata da olio o cera (OGMR 316).
  • Le immagini sacre

Il loro numero non cresca in modo eccessivo, e la loro disposizione non distolga l’attenzione dei fedeli dalla celebrazione. Di un medesimo Santo non si abbia abitualmente che una sola immagine (OGMR 318).

In questa compilazione mancano due luoghi liturgici importanti, di cui però si tratta nei rituali del Battesimo e della Penitenza: il battistero ed il luogo della riconciliazione. Essi dovrebbero essere disposti in maniera tale da rispecchiare il loro rispettivo simbolismo di iniziazione e purificazione. Inoltre il battistero, oltre ad essere riservato alla funzione che gli è propria, andrebbe ornato con fiori e decorato con immagini a carattere battesimale, nel caso in cui l’insieme della chiesa lo permettesse ed in dialogo con l’aula liturgica.

Al termine di questa prima parte, da questa carrellata di citazioni è emerso che la centralità e l’importanza dell’altare vengono sottolineati dalla sua ubicazione, dall’utilizzo di tovaglia, candelieri, croce e fiori. Gli altri luoghi, compresa la custodia eucaristica, e l’aula liturgica in generale, dovrebbero essere decorati e ornati non solo in maniera subordinata all’altare, ma anche in modo che essi stessi aiutino a far convergere l’attenzione e a sottolineare la preminenza dell’altare stesso.


L’estetica delle vesti liturgiche

La preoccupazione che ha guidato la riforma liturgica, come affermava San Paolo VI nella Costituzione Apostolica Missale Romanum del 1969, è stata quella di armonizzare la fedeltà alla “antica tradizione dei padri” con “l’adattamento alla sensibilità contemporanea”. Come il luogo liturgico, così anche le vesti liturgiche sono state soggette al fascino delle mode delle varie epoche e vi si sono adattate.

Non addentrandomi nel campo dell’antropologia culturale o nella teologia biblica, ricordo solo che la veste è foriera di senso: indica la dignità della persona (cf. Lc 15). La liturgia, in quanto Parola celebrata, ha fatto proprie le istanze bibliche e le ha inculturate tenendo conto dei luoghi e dei tempi.

In ambito liturgico la veste diviene segno della realtà sinergica tra la dinamica divina di santificazione e quella umana di culto. La veste sacra diventa quindi un segno teandrico: con un linguaggio umano, che coinvolge il senso della vista, tenta di esprimere la realtà divina nella costante tensione tra il già ed il non ancora.

Bisogna far attenzione perché il segno è una realtà fragile e per essere compreso immediatamente necessita della caratteristica della dignitosa semplicità[5], che non va intesa con la sciatteria. Sia la sciatteria che la vanità sono distruttive di ogni segno. “La semplicità e la chiarezza del simbolo non sono affatto in contrasto con la bellezza ed il decoro; anzi i due aspetti si fondono magnificamente perché nella liturgia […] il veramente bello e dignitoso è ciò che è profondamente vero”[6].

Riscoprire le origini e la storia delle vesti aiuta a comprenderne il significato non solo originario, ma anche odierno, superando l’arbitrarietà del gusto personale.

In generale possiamo affermare che l’origine delle vesti liturgiche è profana, quotidiana. Assunte però all’interno della liturgia ed in seguito a svariati fattori storico-culturali (e.g. l’editto di Costantino) e teologici (la logica dell’incarnazione), sono state soggette alle dinamiche proprie del linguaggio: al mutare del contesto il significante (in questo caso le vesti liturgiche) assume un nuovo significato che quindi veicola un messaggio diverso da quello originario.

L’OGMR ai nn. 335-339; 341-344 così recita:

  • Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, non tutte le membra svolgono lo stesso compito. Questa diversità di compiti nella celebrazione dell’Eucaristia, si manifesta esteriormente con la diversità delle vesti sacre, che perciò devono essere segno dell’ufficio proprio di ogni ministro. Conviene però che tali vesti contribuiscano anche al decoro dell’azione sacra.
  • La veste sacra comune a tutti i ministri ordinati e istituiti di qualsiasi grado è il camice stretto ai fianchi dal cingolo, a meno che non sia fatto in modo da aderire al corpo anche senza cingolo. Prima di indossare il camice, se questo non copre l’abito comune attorno al collo, si usi l’amitto. Il camice non può essere sostituito dalla cotta, neppure sopra la veste talare, quando, secondo le norme, si indossano la casula o la dalmatica, oppure quando si deve indossare la stola, senza la casula o la dalmatica.
  • Nella Messa e nelle altre azioni sacre direttamente collegate con essa, veste propria del sacerdote celebrante è la casula o pianeta, se non viene indicato diversamente; la casula s’indossa sopra il camice e la stola.
  • Veste propria del diacono è la dalmatica, da indossarsi sopra il camice e la stola; tuttavia la dalmatica, o per necessità o per il grado minore di solennità, si può tralasciare.
  • Gli accoliti, i lettori e gli altri ministri laici possono indossare il camice o un’altra veste legittimamente approvata nella loro regione dalla Conferenza Episcopale.
  • Il piviale viene indossato dal sacerdote nelle processioni e nelle altre azioni sacre, secondo le rubriche proprie dei singoli riti.

Riguardo alla forma delle vesti sacre, le Conferenze Episcopali possono stabilire e proporre alla Sede Apostolica adattamenti richiesti dalle necessità e dagli usi delle singole regioni.

Per la confezione delle vesti sacre, oltre alle stoffe tradizionali, si possono usare altre fibre naturali proprie delle singole regioni, come pure fibre artificiali, rispondenti alla dignità dell’azione sacra e della persona. In questa materia è giudice la Conferenza Episcopale.

La bellezza e la nobiltà delle vesti si devono cercare e porre in risalto più nella forma e nella materia usata, che nella ricchezza dell’ornato. Gli ornamenti possono presentare figurazioni, o immagini, o simboli, che indichino l’uso sacro delle vesti, con esclusione di ciò che non vi si addice”.

Da queste norme emerge il richiamo alla verità dei segni (ogni grado della gerarchia deve indossare l’abito ad esso proprio). C’è da sottolineare anche che si può concelebrare solo indossando camice e stola, se non è possibile che tutti indossino la casula (cf. OGMR 209).

Mentre il Missale Romanum post-tridentino indica come paramento del presbitero e del vescovo la Planeta, l’attuale Messale modifica l’indicazione utilizzando l’espressione “casula seu planeta” ed in diversi loci utilizza solo il primo termine, indicando così un cambio di tendenza rispetto al passato.

Vaga rimane l’indicazione secondo cui “La bellezza e la nobiltà delle vesti si devono cercare e porre in risalto più nella forma e nella materia usata, che nella ricchezza dell’ornato” in quanto, mentre vengono esplicitati i tessuti utilizzabili, niente viene detto riguardo alla forma. Come abbiamo accennato sopra e come vedremo in seguito, la forma è variata e varia in base ai tempi, ai luoghi e alle necessità cultuali. Inoltre, la CEI, per quanto di mia conoscenza, non ha mai legiferato in tale materia.

Prima di procedere ad una presentazione storica delle varie vesti è necessario richiamare alcuni punti fermi che aiutano a compiere un’ermeneutica teologico-liturgica di questi segni liturgici.

Le vesti liturgiche sono espressione di:

  1. Una realtà interiore che può essere sintetizzata nel rivestirsi di Cristo;
  2. Un ruolo, una missione che si svolge durante la celebrazione;
  3. Esprimono non un potere, ma un servizio

Ora possiamo procedere ad un accenno all’evoluzione storica e al significato delle vesti[7].

  1. Il camice. Deriva dalla veste indossata dai cittadini romani. Ha assunto un significato battesimale. Nel tardo Medioevo (XI sec.), in un contesto allegorico iniziò ad arricchirsi di ricami figurativi. Dopo il XVI sec. si diffonde l’industria del merletto e il camice si trasforma in un prezioso oggetto di pizzo che, però, non richiama più il battesimo. Nello stesso XVI sec., con la diffusione della talare, si diffonde la cotta che è nata nei paesi nordici come mantella di pelliccia usata per il freddo durante le celebrazioni (da qui il termine superpelliceum).
  2. La stola. Originariamente era una striscia di tessuto che cingeva il collo. Era chiamata orarium (da os, oris) in quanto utilizzata dagli oratori per asciugarsi la bocca e tergersi il sudore durante le cause in tribunale. Il termine stola deriva dal greco e significa “veste”. In alcuni casi veniva usata anche per asciugare le stoviglie assumendo così il richiamo al servizio. Dal IV-V secolo divenne il segno distintivo di ufficio liturgico ecclesiastico. Dal XVI sec. si arricchì delle croci e dei ricami.
  3. La casula. Derivante dal mantello per ripararsi dal freddo e dalla pioggia. Etimologicamente la parola latina casula significa “piccola casa”, mentre il termine planeta (che si è diffuso in Italia), deriva dal greco e significa “girare”. Nel II secolo fu riservato ai senatori e durante il Medioevo rimase come insegna liturgica del clero. Nei secoli, per permettere una agile mobilità delle braccia, venne accorciata sempre più nei fianchi fino ad assumere la forma della tridentina pianeta. Nella liturgia la casula esprime l’investitura, ricevuta nell’ordinazione, di agire in persona Christi e in nomine Ecclesiae.
  4. La dalmatica. Il nome indica la sua derivazione dalla Dalmazia. Era una veste ampia e lunga, con le maniche ampie e utilizzata senza cintura. Divenne distintiva della corte imperiale, poi riservata ai vescovi. Dal IV sec. fu concessa ai diaconi da papa Silvestro. Nei secoli assunse vari significati: privilegio, innocenza e purezza, servizio.
  5. La tunicella. Era abito dei contadini e della servitù. Arrivava al ginocchio e aveva maniche lunghe e strette. Veniva utilizzata dai vescovi sopra il camice e sotto la dalmatica. Fu veste concessa ai suddiaconi, fino alla loro abolizione nel 1967.

È necessario continuare a riflettere ed approfondire il senso odierno dell’espressione “estetica liturgica” sia riguardo ai luoghi che alle vesti. Come ci ha ricordato il Papa, è urgente una profonda formazione liturgica non solo dei laici, ma anche dei chierici.

Troppo spesso si assiste al sorgere di due estremi che fanno violenza alla liturgia: lo sguardo nostalgico al passato e le corse irrazionali verso il futuro.

Nel primo caso si assiste ad una sterile ostentazione di ricchi paramenti che non proviene dalla conoscenza e dalla doverosa stima nei confronti di una tradizione liturgica durata quattro secoli, e fa correre il rischio di incentrare l’attenzione sul ministro, sulla sontuosità e la preziosità delle vesti, giustificandosi con l’affermazione attribuita ai francescani che “la povertà si ferma ai piedi dell’altare” e sminuire la presenza di Cristo nell’assemblea celebrante. Nell’atteggiamento di nostalgia di un passato idilliaco idealizzato, mai vissuto e mai esistito, scorgo la ricerca di un ritorno alla concezione del sacro di matrice pagana: il senso del misterioso che affascina e terrorizza e che media la presenza del Trascendente. Mentre il senso del sacro cristiano, come anche afferma il Papa, è esperienza viva del mistero pasquale, partecipazione, attraverso la realtà della creazione, alla realtà di amore della Santissima Trinità, realtà che fa sgorgare dal cuore non paura, ma stupore.

Nel secondo caso si assiste alla ricerca spasmodica della novità, del sensazionale, che getta in mano all’ispirazione del momento la celebrazione che è anzitutto un dono che la Chiesa ha ricevuto dal Signore e che ha trasmesso lungo i secoli, obbediente al comando dell’Ultima cena: “fate questo in memoria di me”. Questa fuga in avanti dimentica che la liturgia non è il possesso personale dei presbiteri, ma un tesoro di tutta la Chiesa. Inoltre, proprio perché è un rito, richiede l’obbedienza intelligente alle norme che la regolano e che le permettono di plasmare in ogni fedele la sua identità e appartenenza ecclesiale. Non le ricercatezze stravaganti estemporanee, ma la fedeltà quotidiana permettono alla liturgia di essere azione comunitaria che, coinvolgendo tutti i cinque sensi della persona, permette a tutti i cristiani di divenire figli nel Figlio.

I segni liturgici dovrebbero essere sempre più simbolici, nel senso etimologico del termine: fautori e costruttori di quella koinonia che si realizza sia nella dimensione cultuale e di santificazione (relazione Dio-uomo), sia nella dimensione comunionale intraecclesiale (edificazione del Corpo di Cristo). Solo in questa duplice tensione la vita stessa dei ministri e dei laici verrà trasformata essa stessa in simbolo ed ognuno potrà sfoggiare la veste bianca che rivestiva il Cristo sul Tabor e gli angeli davanti al sepolcro vuoto.

Per quanto riguarda un uso intelligente delle vesti sacre, penso che due assiomi latini possano essere una buona bussola: “est modus in rebus” e “in medio stat virtus”.

Conoscere la storia e recuperare il valore del simbolico, stando attenti a non cedere all’allegoria, aiuta anche i fedeli laici a vivere sempre più profondamente i divini misteri perché toccano con mano che, come dicevano i Padri, “Tutto ciò che Cristo ha assunto è stato redento” e noi siamo il Corpo di Cristo che vive e comunica l’inesprimibile della salvezza attraverso la viva Tradizione della Chiesa. Proprio nel nostro essere Chiesa siamo immersi in un mondo di segni e mediante essi Dio si comunica a noi e noi comunichiamo, nella consapevolezza di essere simbolo vivente.

A cura di don Omar Orrù, direttore Ufficio liturgico diocesano


[1] Cf. Ordinamento Generale del Messale Romano 292: “L’arredamento della chiesa si ispiri a una nobile semplicità, piuttosto che al fasto. Nella scelta degli elementi per l’arredamento, si curi la verità delle cose e si tenda all’educazione dei fedeli e alla dignità di tutto il luogo sacro”.

[2] Cf. Francesco, Lettera apostolica Desiderio desideravi, 1.

[3] Cf. Ibidem, 34-47.

[4] Per buongusto e per la verità del segno bisognerebbe evitare che ci sia solo una decorazione frontale, come si riscontra nelle tovaglie realizzate per gli altari antichi.

[5] Cf. R. Lupi, Simboli e segni cristiani nell’arte, nella liturgia, nel tempio, Milano 2007, 109-110.

[6] S. Sirboni, Il linguaggio simbolico della liturgia. I segni che manifestano e alimentano la fede, Cinisello Balsamo 1999, 115.

[7] Per una presentazione più esaustiva rimando a S. Piccolo Paci, Storia delle vesti liturgiche. Forma, immagine e funzione, Milano 2008.