L’11 ottobre ricorreva il 60mo anno del Concilio Vaticano II

Abbiamo intervistato Alberto Melloni, ordinario di storia del cristianesimo all’Università di Modena e Reggio Emilia e direttore della Fondazione Giovanni XXIII, sul Concilio Vaticano II nella ricorrenza del 60mo anniversario.

L’11 ottobre 1962 San Giovanni XXIII apriva il Concilio Vaticano II: 60 anni dopo, qual è l’eredità di un evento che ha cambiato la storia della Chiesa?
L’eredità del Concilio faceva già parte delle intenzioni di papa Giovanni: fare una cosa che non fosse semplicemente una ripetizione del già detto, per far quello non c’era bisogno di un Concilio, ma qualcosa che facesse fare un balzo innanzi sia rispetto alla fisionomia della Chiesa cattolica, sia rispetto ai rapporti della Chiesa cattolica di allora con le altre Chiese. Non una macchina delle decisioni o delle condanne, ma un incontro con il volto di Cristo. Questo continua, ancora oggi, a fare la Chiesa, e quando non lo fa desidera farlo.
Il balzo innanzi che Roncalli voleva far fare alla Chiesa, a suo avviso, si è realizzato, o c’è bisogno, come qualcuno continua a dire, di un Vaticano III?
La Chiesa ha sempre bisogno di Concili. La collegialità non fa parte della struttura della Chiesa: non è un sacramento, ma un luogo sempre necessario alla Chiesa per trovare l’energia spirituale di cui ha bisogno nei momenti di difficoltà. Del Vaticano II ci sono ancora aspetti poco compresi, il più importante dei quali è l’uso del termine pastorale. Veniamo da una cultura di controversie teologiche basate sulla distinzione tra gli aspetti dogmatici, da una parte, e il servizio pastorale dall’altra. Ancora oggi dilaga un qualunquismo teologico in base al quale si sostiene che Papa Francesco, con i suoi interventi di riforma, non tocchi la dottrina ma soltanto la pastorale, facendogli così il più grave dispetto di lesa maestà. La pastorale non è qualcosa di inferiore al dogma, una specie di applicazione, che non si capisce dove stia, di una dottrina astratta. Per Papa Francesco la pastorale è la presa di coscienza di un modo di dire la verità coerente con la verità di Cristo, o incoerente con essa, e quindi foriero di cattiveria o infecondità. È qualcosa insomma da costruire: basti pensare alla questione del ministero, che riguarda tutta la Chiesa e non soltanto quella cattolica, e che è una questione di rango conciliare. In essa, molto è maturato, ma c’è ancora molto da esplorare e costruire.
Riforma e collegialità sono due delle parole chiave del Vaticano II: che peso possono avere, in una Chiesa che per volere di Papa Francesco è ora in stato sinodale?
Papa Francesco ci chiede di ripensare la sinodalità non soltanto come indigestione di riunioni, ma come luogo di ricerca e celebrazione dell’unità della Chiesa. La riflessione sulla sinodalità fa parte dell’esperienza conciliare: Sinodo e Concilio sono sinonimi, e a loro volta sono entrambi sinonimo di Chiesa.
Papa Francesco è figlio del Concilio: nell’omelia della Messa di inizio del Giubileo della misericordia, Bergoglio aveva parlato del Concilio come di un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo
Per papa Giovanni il Concilio era un incontro col volto di Cristo. Il Concilio ha fortissimamente messo in discussione la distinzione tra l’atto di adorazione e l’atto di carità, come se fossero due ambiti distinti e ad ognuno toccasse qualcosa dell’uno o dell’altro. L’idea di fondo di Giovanni XXIII era che la Chiesa avesse valore per il mondo: la Chiesa come casa di tutti, ma soprattutto dei più poveri. E tutto ciò non può che provenire dall’esperienza dell’ascolto e della celebrazione. L’umanità attende la Chiesa e la Chiesa deve saper mostrare che esiste e vive nell’unità, laddove ci sono divisioni, e di comunione, laddove c’è sfruttamento.

M.Michela Nicolais (fonte SIR)