Storia. Le pratiche funerarie in Sardegna: ultima parte

Sin dalle origini, in tutte le civiltà, ai defunti è stato dedicato un culto particolare fatto di rituali e luoghi caratteristici di quella particolare cultura.

Anche in Sardegna possiamo osservare come le diverse culture abbiano riservato ai defunti un particolare aspetto della loro società, tanto che, le prime attestazioni della presenza umana in Sardegna, sono proprio riferite alla sfera delle attività funerarie in un periodo compreso tra il IX e il VII millennio a.C.

Le prime sepolture avvenivano prevalentemente in ripari sotto roccia, piccoli anfratti in cui i defunti venivano deposti ricoperti di ocra rossa (che simboleggia l’elemento vitale, il sangue) accompagnati da un corredo fatto di conchiglie, ornamenti personali e oggetti di uso quotidiano in pietra e osso; talvolta i corpi venivano trattati per rallentarne il degrado e mitigare gli effetti della decomposizione trovandosi, queste, in prossimità degli insediamenti. È solo con la cultura di Bonu Ighinu che si può riconoscere una distinzione tra spazi dei vivi e spazi dei morti.

Un esempio è la necropoli di Cuccuru is Arrius a Cabras dove si riconosce una tipologia tombale e un rituale funerario ben codificato: le sepolture acquisiscono una funzione comunicativa rivolta ai membri della comunità per sottolineare lo status sociale dei defunti. Non sappiamo se queste sepolture avessero un qualche segnale in superficie per riconoscerne la giusta collocazione. Solo più tardi, con la cultura di San Ciriaco, verso la fine del V millennio, appaiono le prime necropoli ben riconoscibili nel paesaggio.

Queste necropoli sono composte da strutture funerarie circolari in pietre di grandi dimensioni che racchiudono tumuli in cui il defunto è deposto accompagnato da un ricco corredo. Tra la fine del Neolitico e l’Età del Rame si assiste a una marcata connessione tra pratiche funerarie e gruppi sociali, evidenziati dai ricchi corredi e dall’elaborata struttura delle sepolture. In questo periodo sono due le tipologie più frequenti: quella megalitica e quella ipogeica. La prima è costituita dai dolmen (oltre duecentocinquanta distribuiti prevalentemente nella Sardegna centro-settentrionale), costituite da strutture semplici o complesse basate sul sistema trilitico, cioè costituito da due lastre di pietra in verticale su cui poggia un terzo elemento in pietra orizzontale.

La seconda tipologia è quella più nota delle Domus de Janas, in particolare nel periodo tra la fine del Neolitico e l’inizio dell’Età del Rame. Le Domus de Janas sono per lo più tombe collettive, forse pertinenti a un gruppo parentale, di cui sono note circa 3500 esemplari distribuite in tutto il territorio isolano. Isolate o riunite in necropoli, si differenziano per la morfologia dei siti (costoni e basamenti rocciosi, pendici di rilievi, in massi di grandi dimensioni), per il tipo di ingresso (a pozzetto, a corridoio, sul piano di campagna o sopraelevato) e per lo schema planimetrico (mono-bicellulare, complesse con più celle). In alcune si nota la riproduzione di particolari architettonici scavati nella roccia, come le travature dei soffitti, pilastri, nicchie, porte con architravi scolpiti, focolari, quasi a riprodurre le case dei vivi. Varie domus presentano motivi decorativi a bassorilievo o dipinti: spirali, figure antropomorfe, protomi taurine (testa del toro schematizzata), corna, queste ultime a rappresentare il toro identificato come divinità maschile.

Gli spazi esterni delle domus erano dedicati ai rituali funebri. Questi due tipi di sepoltura sono stati utilizzati nello stesso periodo dalle stesse popolazioni, anche se ancora non si è riusciti a capire il perché della scelta di una o dell’altra o di entrambe le tipologie. A causa del frequente riuso di queste sepolture, non è possibile stabilire quale fosse il tipo di rituale, se fosse prevalente il tipo primario, cioè con la deposizione del defunto insieme al suo corredo, o quello secondario, ossia con la deposizione delle ossa e del corredo. Caratteristica della cultura Monte Claro è la sepoltura dentro grandi doli, contenitori per le derrate alimentari, deposti all’interno delle domus.


Come in tutte le civiltà anche in quella nuragica l’aspetto funerario ricopre un ruolo molto importante. Le tombe tipiche di questa civiltà sono le tombe di giganti. Il loro nome deriva dalla credenza popolare che per le loro dimensioni (lunghezza dai 15 ai 28 m e altezza in facciata che supera i 4,5 m) potessero ospitare i corpi di esseri giganteschi. In realtà si tratta di tombe collettive, strettamente connesse al nuraghe/villaggio.

Spesso sono singole, altre volte si trovano in gruppi di due o più monumenti a formare vere e proprie necropoli associate a più comunità che vivevano in villaggi vicini. Queste aree comunitarie, sacre e inviolabili, testimoniano un forte vincolo di parentela o uno stretto legame tra i gruppi che gravitavano attorno a esse. Il loro numero si aggira intorno al migliaio di esemplari, distribuiti in tutta l’Isola ma con maggior densità di numero nella Sardegna centro-settentrionale. Le tombe di giganti derivano dalle allée couverte (dal francese, galleria coperta) un tipo di sepoltura preistorica diffuso in Europa occidentale nel Neolitico e nell’Eneolitico (il periodo di transizione tra l’età della pietra e quella del bronzo).

Queste sepolture collettive sono una evoluzione del dolmen, che viene ripetuto in filari fino a formare corridoi chiusi all’estremità con lastre, una delle quali perforata per permettere la tumulazione del defunto. La struttura tipica della tomba di giganti è costituita da una camera sepolcrale allungata, di forma rettangolare, con estremità posteriore curva e ingresso formato da un portello di piccole dimensioni ricavato nella stele centinata. Al di sopra della tomba poteva trovarsi un accumulo di terra e pietrame.

Le piccole dimensioni del portello presente nella stele centinata, ha portato a supporre che i defunti venissero deposti nella camera sepolcrale dall’alto, rimuovendo le lastre di copertura del corridoio a circa metà della sua lunghezza. La camera sepolcrale poteva essere a struttura dolmenica, ossia costituita da file di ortostati (lastre inserite in verticale nel terreno) chiuse da lastre orizzontali, oppure realizzata con pietre di piccole dimensioni disposte in filari regolari, oppure a struttura mista. La stele centinata, l’elemento che accomuna tutte le tipologie di tomba dei giganti, è una lastra rettangolare o trapezoidale con la parte superiore ricurva (centinata) e superficie lavorata, con cornice a rilievo talvolta con divisione orizzontale.

La stele, per la sua monumentalità, segnalava la presenza della tomba da lontano, ed era posta al centro dell’esedra, struttura semicircolare formata anch’essa da lastre di pietra poste in verticale e di dimensioni decrescenti verso le estremità. L’esedra, dotata di un sedile, delimitava l’area sacra in cui si svolgevano i riti funerari. Nella Sardegna meridionale, è costituita da filari regolari di pietre di piccole dimensioni, priva di stele centinata e con ingresso architravato. All’interno delle tombe di giganti le ossa dei defunti sono state ritrovate ammassate, prive di una chiara disposizione, questo perché, le ossa presenti venivano spostate verso il fondo per fare spazio alla nuova deposizione.

Per quanto riguarda i rituali funerari, la deposizione dei defunti era per lo più secondaria, ossia venivano deposte solo le ossa, privi di corredo individuale, indice di una società egualitaria. I materiali ceramici ritrovati nell’esedra hanno fatto supporre che le tombe di giganti non fossero solo luoghi di sepoltura ma anche spazi sacri in cui il culto degli antenati rivestiva un ruolo centrale nella religiosità delle genti nuragiche, secoli prima della nascita del culto delle acque. Simili alle tombe di giganti sono gli ipogei a prospetto architettonico, diffusi prevalentemente nel sassarese, chiamati anche domus a prospetto architettonico: l’aspetto esterno della tomba di giganti è riproposta scavando nella roccia quelli che sono i suoi elementi caratteristici, esedra con la stele centinata all’esterno e il corridoio della camera sepolcrale all’interno. In alcuni casi si osserva il riutilizzo delle domus de janas neolitiche. Altre tipologie di tombe utilizzate in epoca nuragica sono i tafoni, cavità naturali della roccia o grotte e ripari sotto roccia. Nelle fasi finali dell’epoca nuragica le tombe dei giganti non vengono più costruite, si prediligono tombe a corridoio seminterrato prive di esedra e i defunti, accompagnati dal corredo, sono inseriti dal portello anteriore, oppure tombe a pozzetto individuale come quelle ritrovate nel complesso di Mont’e Prama.


Se ancora poco si conosce dei rituali funerari e delle modalità di sepoltura che caratterizzavano le tombe nuragiche delle comunità sarde che si svilupparono nelle aree interne dell’Isola, per tutto il primo millennio a.C. fino alla prima età romana, parallelamente alla colonizzazione fenicia delle zone costiere e nel successivo periodo punico, più chiaro è l’insieme di rituali e di sepolture diffusi durante la prima fase fenicia (VIII-VI sec. a.C.) e nella successiva fase punica (V-III sec. a.C.).

I ritrovamenti di Mont’e Prama sembrano dimostrare un repentino mutamento degli aspetti funerari che passano dalla dimensione collettiva delle tombe di giganti all’individualismo delle tombe singole a pozzetto scavate nel terreno o nel banco roccioso. Nelle necropoli, poste ai margini degli abitati, durante il periodo fenicio arcaico (VIII-VII sec. a.C.) prevale la cremazione secondaria dei defunti su pire esterne alle tombe e solo successivamente le ossa combuste venivano deposte in una fossa nel terreno raccolti all’interno di un’urna che poteva essere una pentola, una brocca, o un’anfora da trasporto.

Le fosse erano rivestite e chiuse da lastre: le così dette ciste litiche. Dalla fine del VII sec. si diffonde la cremazione primaria: il defunto veniva cremato direttamente all’interno della fossa, sui resti si adagiava il corredo funebre e poi si procedeva al riempimento della fossa e alla chiusura con lastre di pietra. A partire dagli inizi del VI sec. a.C., si diffonde la pratica dell’inumazione: i defunti erano posti all’interno di fosse scavate nel terreno o nella roccia, adagiati su lettighe di legno o sulla nuda terra, accompagnate dal corredo funebre; in alcuni casi sono stati ritrovati i resti di bare di legno. Parallelamente si diffonde anche la tipologia chiamata a enchytrismos, ossia il defunto veniva deposto all’interno di grandi anfore da trasporto tagliate longitudinalmente. È sempre in questo periodo che iniziano a comparire le tombe a camera ipogea, scavate nel banco roccioso: cavità quadrangolari a cui si accedeva da una scala (anch’essa scavata nella roccia) che conduceva ad un pianerottolo che si apriva di fronte al portello di accesso alla camera funeraria.

All’interno trovavano posto numerose deposizioni, prevalentemente di adulti, in sarcofagi o lettighe di legno. Tra il VI e il IV-III sec. a.C., a parte alcuni casi di cremazione, prevalente l’inumazione. Per quanto riguarda i rituali che dovevano accompagnare la sepoltura del defunto, sono stati individuati i segni di pratiche e gesti quali il lavaggio e l’unzione delle salme, lamentazioni, cortei, letture di testi religiosi, ecc.: questi rituali servivano alle comunità per ricomporsi dopo il distacco dal defunto. Un discorso a parte va fatto per la sepoltura dei bambini: per decenni gli studiosi hanno discusso sulle pratiche funerarie riservate ai membri più piccoli delle comunità fenicio-puniche. La perdita di una giovane vita non riguardava solo la famiglia di appartenenza ma l’intera comunità e qui occorre fare una distinzione tra sepolture dei bambini già inseriti all’interno della società e di quelli che ancora non ne facevano parte perché morti prematuramente o mai nati.

Fin dalle fasi più antiche della presenza fenicia in Sardegna, i bambini dai 2 ai 14 anni, già inseriti nella società, condividevano gli stessi spazi funerari riservati agli adolescenti e agli adulti. I resti cremati dei piccoli erano deposti in fosse singole da soli o accanto a defunti adulti, forse appartenenti allo stesso nucleo familiare. I corredi erano costituiti da vasi di piccole dimensioni, monili e amuleti. Nel V-III sec. a.C., si osserva, nelle necropoli, la presenza di spazi riservati alla sepoltura dei più piccoli.

I bambini nati prematuramente o mai nati, invece, venivano seppelliti nei tophet. Per molto tempo si è pensato che fossero luoghi in cui si praticava il sacrificio dei primogeniti al dio Molok, tesi avvalorata da quanto riportato dalle fonti classiche e dalla Bibbia. In realtà non è comprensibile perché in una società come quella fenicia, in cui la mortalità infantile era già alta, si dovessero sacrificare alla divinità i figli primogeniti, rischiando in breve tempo di arrivare all’estinzione. Attualmente si ritiene che i tophet fossero dei santuari in cui si seppellivano i bambini mai nati o morti entro il secondo anno di età, e tutti i rituali erano volti a ottenere, da parte delle divinità, la concessione di una nuova nascita. I resti cremati dei piccoli erano deposti all’interno di urne in ceramica e se la richiesta veniva esaudita, i genitori deponevano, in questo santuario a cielo aperto, una stele, una lastra scolpita, a ricordo della grazia ricevuta.


Le sepolture nella Sardegna Romana

Il modo in cui gli antichi accompagnavano i defunti nell’ultimo viaggio terreno, sono il riflesso delle credenze sull’aldilà ma anche una rappresentazione della comunità dei vivi perché danno informazioni su culture, censo, genere ed età. Le tipologie di sepolture di epoca romana ritrovate in Sardegna sono analoghe a quelle documentate in tutto il mondo romano, anche se, per un certo periodo continuano a coesistere pratiche funerarie di epoca punica.

Così pure per quanto riguarda i riti funerari: l’incinerazione e l’inumazione. Il rito dell’incinerazione poteva avvenire nel luogo della sepoltura, che prende il nome di bustum, oppure in uno spazio dedicato, detto ustrina. L’Incinerazione e l’inumazione coesistono nelle stesse necropoli sia in epoca repubblicana che imperiale, anche se si è osservato che l’incinerazione è maggiormente diffusa tra il I e la fine del II sec. a.C., mentre l’inumazione è predominante dalla seconda metà del III sec. a.C. in poi, dovuto anche al diffondersi delle religioni orientali e del Cristianesimo che non contemplavano l’incinerazione dei defunti.

Le tombe, anche nella Sardegna romana, cambiano in base al rito funerario, al ceto e alle disponibilità finanziare del defunto. Il tipo più semplice era la fossa scavata nel terreno o nella roccia, dentro cui veniva deposto il defunto adagiato sulla nuda terra o su una lettiga in legno. In alcuni casi sono stati ritrovati i segni della presenza di sudari, lenzuola con cui venivano avvolti i defunti o di bare in legno. Spesso la tomba era rivestita con lastre di pietra o di terracotta e poi chiusa con tegole disposte a doppio spiovente, la così detta tomba alla cappuccina, che si diffonde, in particolare, durante l’età imperiale.

Anche se più raramente, continuano a essere utilizzate le sepolture a enchytrismos, tipiche del periodo punico, ossia all’interno di grandi anfore da trasporto. Erano riservate alle classi più abbienti le tombe a sarcofago, in pietra, ma anche in terracotta e piombo, decorati con motivi floreali, marini, scene di vita del defunto e mitologiche. A partire dal IV sec. d.C., compaiono i primi motivi a tema cristiano, mentre dal V sec., anche in Sardegna si diffondono le tombe decorate a mosaico, tipiche del Nord Africa. Anche per il rito della cremazione, il tipo di contenitore usato per raccogliere le ceneri del defunto dipendeva dalle disponibilità economiche della famiglia: spesso erano contenitori in ceramica di uso comune, olle, pentole, tegami, ma anche i più pregiati in vetro o in marmo.

Un’altra tipologia di sepoltura sono le cupae, monumenti in muratura o in lastre di pietra con copertura curva, che richiama la forma di una botte, associate a ceti poveri. Anche in età romana è usanza diffusa inserire, all’interno della sepoltura, un corredo che doveva accompagnare il defunto nel suo viaggio nell’aldilà. In età repubblicana e imperiale era costituito da coppe e piatti che contenevano cibi e bevande (bottiglie, anfore e brocchette) ma anche lucerne, simbolo della luce che rischiara le tenebre della morte, vasetti che contenevano unguenti profumati. In alcune sepolture, nella mano o dentro la bocca del defunto veniva deposta una moneta, il così detto obolo di Caronte con cui avrebbe pagato il passaggio nell’aldilà.

Nelle tombe dei bambini sono stati ritrovati i resti di piccoli animali o statuette in terracotta. Nelle tombe dei più ricchi, sono stati trovati oggetti preziosi come ceramiche pregiate e gioielli. Grazie alla conoscenza dei tipi di tomba, dei corredi e dall’analisi dei resti ossei è stato possibile ricostruire i riti che si svolgevano al momento della sepoltura. Quando moriva un parente, tutta la famiglia invocava il nome del defunto e intonava pianti e lamenti. Il cadavere veniva cosparso di oli profumati e poi, accompagnato da parenti e amici, era condotto nei luoghi di sepoltura fuori dai centri abitati.

Al terzo, al settimo, al nono e al trentesimo giorno dalla morte, e poi ogni anno, si preparava un banchetto in onore del defunto. Ogni anno si svolgevano feste per commemorare i defunti: le Parentalia il 13 e il 21 febbraio, e nelle tombe si portavano fiori, cibi e bevande; le Lemuralia, a maggio, quando si pensava che gli spiriti tornassero sulla terra; i Rosalia, tra maggio e giugno, quando venivano poste delle rose sulle tombe. Privatamente, ogni famiglia, celebrava il dies natalis del proprio caro defunto, nell’anniversario della sua morte. La memoria dei defunti era anche affidata alle iscrizioni, per il quale sarebbe necessario uno spazio a parte a giudicare dal vasto repertorio di epigrafi funerarie ritrovate. Queste dediche iniziavano con l’invocazione agli Dei Mani e a seguire il nome del defunto, l’età e frasi di elogio in suo onore. Talvolta vi erano anche maledizioni rivolte a chi osava profanare la tomba o non rispettava le volontà del defunto.


BIBLIOGRFIA

Per chi volesse approfondire il tema, propongo un interessante lavoro finanziato dalla Regione Sardegna e a cui hanno partecipato archeologi e studiosi sardi e non, dal titolo Corpora delle antichità della Sardegna. L’opera è divisa in sei volumi, pubblicati tra il 2014 e il 2021: La Sardegna preistorica; La Sardegna nuragica; La Sardegna fenicia e punica; La Sardegna romana e altomedievale; La Sardegna medievale, moderna e contemporanea. Tutti i volumi sono disponibili in formato pdf, scaricabili gratuitamente dal sito www.sardegnadigitallibrary.it, nella sezione testi.


A cura di Rita Valentina Erdas

Pubblicato su L’Arborense n. 38, n. 39, n. 40 e n. 41 del 2022