Omelia per la Messa di Inizio del Ministero Pastorale nell’Arcidiocesi di Oristano

Cattedrale di Oristano
07-07-2019

Carissimi fratelli e sorelle, il Signore vi dia pace!

La vostra partecipazione a questa solenne celebrazione manifesta in modo immediato e visibile che il cammino di ciascuno di noi nella Chiesa, il mio cammino come vescovo di questa Chiesa, non è solitario. Infatti, vedo qui tanti volti amici e altri che lo diventeranno.

Ringrazio i confratelli vescovi per la loro presenza Mons. Paolo Atzei, Mons. Giovanni Dettori, Mons. Mosè Marcia, Mons. Mauro Maria Morfino e gli altri vescovi della Sardegna che mi hanno manifestato la loro vicinanza e amicizia ma, a causa di impegni improrogabili nelle loro diocesi, non possono essere qui con noi.

Sono particolarmente grato al vescovo Ignazio per il servizio alla nostra Chiesa di Oristano durante i suoi anni di episcopato. La sua presenza qui, oggi, testimonia la comunione e la continuità che deve animare i diversi ministeri nella Chiesa anche nell’avvicendarsi delle persone, per riportare sempre alcentro l’essenziale, cioè l’annuncio di Gesù Cristo. Saluto i presbiteri e diaconi dell’Arcidiocesi di Oristano che sono qui con tanti cristiani provenienti dalle loro comunità. Mi accosto con rispetto a ciascuno di voi, per condividere il servizio che da tempo offrite al popolo di Dio, insieme alle preoccupazioni che pure l’accompagnano. vi invito già da ora ad approfondire il dialogo fra noi e prestare insieme ascolto allo Spirito Santo, coinvolgendo i laici, uomini e donne, per fare discernimento su come rispondere oggi a ciò che il Signore ci dice attraverso i segni dei tempi. Saluto i presbiteri, i diaconi e le comunità cristiane della Diocesi di Ales-Terralba che mi accompagnano con la loro preghiera, amicizia e sostegno: spero, con l’aiuto della Grazia di Dio, di continuare a servire quell’amata Chiesa come ho imparato a fare in questi anni. Ai presbiteri dell’una e dell’altra Diocesi chiedo di trovare insieme quei percorsi di comunione e condivisione che la Chiesa si attende da noi.

Saluto le Autorità che hanno voluto essere presenti a questa celebrazione di inizio del mio ministero episcopale nella Arcidiocesi di Oristano: il Signor Prefetto Dott. Gennaro Capo, il signor Sindaco di Oristano Dott. Andrea Lutzu, il Questore Dott.ssa Giusy Stellino, le autorità Militari, i sindaci che provengono dal territorio della Diocesi di Ales-Terralba e dalla Provincia di Oristano. Grazie a tutti!

Permettetemi di rinnovare a tutti voi il saluto di san Francesco: “Il Signore vi dia pace!”. Esso mi pare oggi particolarmente adatto, sia per rendere omaggio al Serafico Padre san Francesco che mi ha insegnato l’amore alla Chiesa e al popolo di Dio, sia perché in esso il protagonista è il Signore Gesù. Egli, nel presentarsi ai discepoli dopo la Sua Resurrezione offre la “Sua pace”, cioè quell’atteggiamento del cuore in cui il dialogo con Dio, con i fratelli, con il mondo si trasforma in stile di accoglienza e amore. La nostra vocazione comune trova qui il suo significato più profondo: farsi messaggeri di questa pace, dato che in modo speciale oggi – nel nostro mondo segnato dalla violenza e dalla divisione – ne abbiamo maggior bisogno: nelle nostre famiglie, dentro la società, nella comunità ecclesiale, nelle comunità religiose e nella stessa comunità presbiterale.

Nel perìodo che ha accompagnato la mia preparazione a questo momento solenne, ho riflettuto spesso sul ministero episcopale e sull’atteggiamento con cui accogliere questo nuovo servizio che il Signore, attraverso la Chiesa e il Papa, mi ha chiesto. Nei dialoghi e negli auguri di tanta gente ho sentito utilizzare con affetto espressioni che certo fanno parte del linguaggio giuridico-ecclesiastico della Chiesa, ma che al tempo stesso mi sono sembrate limitate e bisognose di essere rivisitate. Ho sentito parlare di “promozione”, di “avanzamento”. Permettetemi di dire, senza voler scandalizzare nessuno, che non vedo adeguate queste parole per descrivere il Ministero episcopale. La Chiesa tre anni fa mi ha affidato la comunità cristiana della Diocesi di Ales-Terralba per amarla, servirla e guidarla e mi chiede ancora di continuare a farlo, e oggi mi affida la comunità cristiana dell’Arcidiocesi di Oristano. Parlando di Chiesa, di cristiani, di fede che tutti ci unisce, credo non siano adeguati i concetti di “piccolo e grande, più e meno, modesto e importante”. Certo la storia, la geografia, le tradizioni, i campanili hanno e avranno il loro peso, ma considero questo ministero – e invito anche voi a farlo – più nella prospettiva di un servizio all’unica comunità cristiana riunita attorno a Gesù Cristo, chiamata a testimoniarlo, piuttosto che solo in termini di strutture o di organizzazione, seppure esse siano di certa utilità.

Una seconda parola si è affacciata talvolta in questi mesi: “la presa di possesso”. Anche in questo caso siamo debitori al linguaggio giuridico e tradizionale e non ce ne scandalizziamo. Ma sappiamo bene che il servizio alla Chiesa e nella Chiesa non è una “appropriazione”, ma appunto un “servizio”. Non sono, queste, parole mie, ma del Vangelo, dove Gesù insegna ai discepoli che “potere” significa “servire”. La Chiesa, la Diocesi, non è mia, non è dei preti o religiosi o dei diaconi, non è neanche solo dei cristiani. Come non possiamo dire che qualcuno è “proprietario” della propria famiglia, sia esso il padre, la madre o i figli, così dobbiamo ricordarci che la Chiesa siamo noi e noi siamo di Cristo. Essa si costruisce nella fedeltà a Cristo e vive dell’apporto di ciascuno e ciascuno ha la sua responsabilità nel renderla ospitale oppure ostile, accogliente o distante.

La Liturgia della Parola illumina oggi questa celebrazione, indicando a ciascuno – e per primo a me come vescovo – la strada da percorrere. Il Signore ci chiama per mandarci. Nessuno di noi riceve una chiamata, la vocazione, come un titolo di gloria o una medaglia al valore. Si tratta piuttosto di una “spinta” ad uscire da noi stessi e metterci in cammino. Essere discepoli del Signore non è dunque un privilegio da coccolare e tenere “ben conservato sotto spirito”, come direbbe Papa Francesco, ma piuttosto si tratta di un dono, di un compito e di una responsabilità, oltre che di un Mistero. UN DONO: dato che nessuno può “chiamare se stesso” se non a rischio di fondare la vocazione su motivazioni umane; di UN COMPITO: poiché è una chiamata esigente, che inizia dal battesimo che tutti ci unisce, per arrivare poi alle molte vocazioni che qui oggi sono rappresentate. È pure una RESPONSABILITÀ: che mette specialmente noi ministri ordinati nell’esigenza di non usare per noi la vocazione; non “servirci” delle cose di Dio ma servire le cose di Dio.

Mi è stato chiesto quale fosse il mio “programma di lavoro” entrando nella Arcidiocesi di Oristano. Non vi sono altri programmi diversi da questo: annunziare Gesù Cristo, aiutare le persone ad incontrarLo e trasformare l’incontro con il Signore in carità verso gli altri. Fuori di questo si rischia di trasformare le nostre comunità in moltiplicatrici di attività, erogatrici di servizi, in agenzie sociali, ma forse perdendo l’essenziale: il Signore.

C’è bisogno di questo annuncio oggi, nella nostra Chiesa, nelle nostre comunità cristiane? Sebbene tutti aspiriamo alla salvezza che è fatta di pace, di amore, di giustizia, sappiamo bene che siamo anche capaci di produrre mostri, di creare violenza, negazione e rifiuto. Come cristiani dobbiamo farci annunciatori di una speranza che è fede nel Signore ma anche impegno di ciascuno. È vero che solo il Signore può salvarci dal male, ma, come dice san Paolo, noi siamo “ambasciatori di Cristo” e dobbiamo dire a noi stessi e agli altri “Lasciatevi riconciliare”.

Il Vangelo che abbiamo ascoltato dice con chiarezza che nel cammino del discepolo missionario bisogna mettere in conto la croce. Se prendiamo sul serio la nostra missione sappiamo che troveremo anche persecuzioni. La croce del Signore, così difficile da accettare per ciascuno di noi, è il segno della vittoria sul male e sulla morte. La croce non è solo ascesa, neanche occasione di itinerario morale, neanche solo una semplice imitazione della croce di Gesù, ma è insieme luogo della speranza e anche della profezia. Come discepoli siamo chiamati a proclamare con la parola e con la vita che è possibile una nuova logica, che non è quella del “mondo di lupi dominati dall’aggressività”, ma di persone che riconoscono l’umanità dell’altro e il segno indelebile della figliolanza di Dio. Nell’invio del discepolo c’è una nuova logica; non quella dell’apparenza, dell’avere, ma quella dell’accoglienza, della condivisione. Non dobbiamo nasconderci che il nostro mondo non sente più bisogno di Dio. Forse tocca anche noi quel sottile pensiero che affascina anche tanti nostri giovani: “si può fare senza di Lui”, si può essere felici (forse) senza di Lui. Non siamo chiamati a lamentarci della prima “generazione incredula” come è stata chiamata, ma piuttosto a svegliarci dal sonno e stimolare in noi la domanda: siamo ancora capaci di far risplendere la bellezza della nostra vocazione cristiana, dell’incontro con Gesù Cristo, della novità portata dalla Sua presenza e Parola? La Parola di Gesù ci ricorda che la messe è abbondante ma sono pochi gli operai.

È noto che esiste un calo notevole di vocazioni al sacerdozio, sia in generale nella Chiesa come nelle nostre Diocesi. Le motivazioni sono molteplici. Fattori che si condizionano reciprocamente con un effetto a catena a cui non è facile dare risposte o soluzioni immediate.

La vocazione è certo un dono di Dio, un’ispirazione dello Spirito Santo, ma come ci insegna la Scrittura, essa ha bisogno di mediazioni per farsi strada. Si tratta di quella che Benedetto XVI, ripreso poi da Papa Francesco, chiama la logica “dell’attrazione e non del proselitismo”. Ciascuno di noi in questa prospettiva ha la propria responsabilità: i laici, la famiglia, gli educatori, i catechisti e certo anche e soprattutto i presbiteri che con la loro testimonianza di una vita donata possono dire, anche senza tante parole, che ne vale la pena, che si può amare e servire il Signore nella vocazione sacerdotale.

A conclusione di questa riflessione, dove ho toccato velocemente e condiviso con voi alcuni temi che mi stanno a cuore e che la Parola di Dio oggi ripropone, desidero ringraziare e lodare La Ss. Trinità, per i grandi doni che ha fatto alla mia vita, attraverso le tante persone che hanno segnato e attraversato il mio percorso umano e spirituale. La bontà di Dio si manifesta nella storia della salvezza, in quella universale che tutti ci accomuna, e in quella di ciascuno di noi e si realizza in persone, avvenimenti, momenti difficili e scelte ispirate dallo Spirito del Signore. Affido il mio cammino e quello della Arcidiocesi di Oristano e della Diocesi di Ales-Terralba alla Madre del Signore – la Vergine Maria – che veneriamo con il titolo di Madonna del Rimedio, Madonna Di Bonacatu e di Santa Mariaquas. È sempre la stessa Madre di Dio, colta nei suoi diversi atteggiamenti di misericordia e intercessione per noi. È Lei che rinnova l’invito per il cammino spirituale di ciascuno di noi dicendoci: “Fate quello che Egli, Gesù, vi dirà”. Amen