Omelia per l’anniversario della Dedicazione dell’Altare della Cattedrale

10-01-2018

Cari fratelli e sorelle,
la celebrazione dell’anniversario della dedicazione dell’altare della cattedrale ci porta a riflettere sul senso dell’altare e del tempio nella nostra vita. Le letture bibliche della giornata ci aiutano in questa riflessione, presentandoci due spaccati di vita quotidiana: quello di Samuele e quello di Gesù.
Nel racconto di Samuele, ad una prima impressione, ci può sembrare strano che egli dormisse nel tempio. Nel tempio si va a pregare, a celebrare il culto, non a dormire. In realtà, Samuele era un “chierichetto”, e prestava il suo servizio, possiamo dire, a tempo pieno, non solamente, come può capitare ai nostri chierichetti, quando si è liberi dalla scuola, da allenamenti vari, dalla visita ai nonni, e così via. Il sommo sacerdote era Eli ed aveva due figli, che sviavano il popolo del Signore e peccavano contro il Signore (cfr. 1Sam 2, 1-2). Erano divenuti causa di malumore e di scandalo presso tutto il popolo. Succedeva che loro, divenuti avidi e increduli, approfittassero delle offerte che il popolo portava al tempio: trascuravano le norme dei sacrifici, infastidivano i pellegrini, rubavano le carni degli animali sacrificati e si curavano più dei loro interessi e dei loro piaceri che non del servizio che dovevano rendere nel tempio di Dio (cfr. 1Sam 2, 12-17). Il piccolo Samuele, invece, “andava crescendo in statura e in bontà davanti al Signore e agli uomini”(1Sam 1, 26). Sua madre Anna, lo aveva donato al Signore con le parole: “Per questo bambino ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che lo potessi avere. Perciò anch’io lo do in cambio al Signore; per tutti i giorni della sua vita, egli è ceduto al Signore” (1Sam 1, 17-18). Ben presto Samuele, avendo risposto alla chiamata del Signore, giuntagli nel pieno della notte, “acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole” (1Sam 3, 19). Vivere secondo la Parola è lo stile delle persone che si lasciano guidare da Dio. Così fu per la Vergine Maria, che rispose all’angelo: “si compia in me secondo la tua Parola” (Lc 1, 38); per San Giuseppe, che, sulla parola dell’angelo, prese con sé Maria ed accettò la paternità per opera dello Spirito Santo (Mt 1, 24); per il pescatore Simone, che dopo aver faticato tutta la notte e non aver preso neanche un pesce, getta la rete sulla Parola del Signore (cfr. Lc 5, 5). Così sarà anche per noi, nella misura in cui, nelle nostre fatiche, nei nostri progetti, nei nostri sogni, ci lasciamo guidare dalla Parola, lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino (cfr. Sal 118, 105).
Il racconto di San Marco ci descrive come Gesù trascorreva una giornata a Cafarnao, un villaggio della Galilea, all’inizio della vita pubblica. Dopo aver operato la liberazione dell’indemoniato nella sinagoga, entra nella casa di Simone e di Andrea ed opera un altro miracolo, liberando dalla febbre la suocera di Simone. Questa, appena guarita, si mette subito al lavoro e prepara il pranzo agli ospiti (cfr. Mc 1, 1.31). Il suo servizio domestico, in qualche modo, diventa un esempio del servizio del discepolo di Gesù, che è “venuto non per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.”(Mc 10, 45). Gesù continua la sua opera di guarigione dalle forme del male per tutta la giornata. Al mattino seguente, si ritira nel deserto a pregare. Si può dire che questa giornata tipo di Gesù riassuma in sé le dimensioni significative della vita cristiana: pregare il Signore, servire il prossimo. Queste dimensioni chiariscono anche il nostro rapporto con il tempio, ossia con la casa di Dio.
Nell’Antico Testamento, il significato del tempio era duplice: luogo dell’incontro con Dio e luogo del raduno delle tribù. Dunque, la visita del tempio portava con sé un rapporto verso Dio, e un rapporto verso il prossimo. Gesù riassume nella sua persona questo duplice rapporto, perché, secondo San Giovanni, egli è il vero tempio: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 21). È in Lui, quindi, che possiamo fare un’autentica esperienza di incontro con Dio e con il prossimo.
Incontrare Dio è il desiderio espresso e inespresso di ogni uomo e di ogni donna, come testimonia il la preghiera del salmista: “Il tuo volto io cerco o Signore. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26, 17-18). Se Dio crea chiamando per nome (cfr. Is 49, 1), ogni uomo risponderà nel suo cuore e nella sua coscienza, con la sua cultura, la sua esperienza, la sua fede. Una risposta alla domanda su Dio, comunque, la troviamo nell’evangelista Giovanni. A Filippo che gli chiedeva “Signore, mostraci il Padre”, Gesù risponde: “È tanto tempo che sei con me e ancora non lo sai? Chi vede me vede il Padre” (Gv 14, 8-9). Dio, dunque, lo incontriamo per mezzo di Gesù che ce lo rivela come Padre. La prima volta che Gesù chiama Dio “Padre mio”, però, è quando a Gerusalemme caccia i venditori dal tempio (cfr. Gv 2,14-17) con il severo rimprovero: “non fate della casa del Padre mio una casa di mercato” (v. 16). Gesù parla del tempio d’Israele come della “casa” del Padre suo. Nell’Antico Testamento, il tempio era considerato la casa di Dio (cfr. Es 25,40; 1Re 6,1; Sal 122, 1) e il centro del culto dell’Altissimo. Gli evangelisti Marco, Matteo, Luca chiamano il tempio “casa di preghiera” (cfr. Mt 21,13; Mc 11, 17; Lc 19,46). Per Gesù, il tempio è la “casa” di suo Padre, che deve essere purificata dalla profanazione del commercio.
L’incontro con Dio non può prescindere dall’incontro con il prossimo (cfr. Lc 10, 27). A questo riguardo, scrive Carmine di Sante in Celebrare la vita : “ci sono alcune lingue, come, ad esempio, l’ebraica e l’araba, che non conoscono le vocali e che per scrivere una parola si servono solo delle consonanti. In queste lingue, pertanto, ci si viene spesso a trovare di fronte a due lettere come m r o ad altre due come v t che spetta al lettore interpretare. Ma come farlo? Come integrare le due consonanti? Quali vocali usare per completarle? M r infatti potrebbero essere vocalizzate sia con a, e, in questo caso, darebbero luogo a “mare”, che con u, e, in questo caso, darebbero luogo a “muro”. Allo stesso modo, v t vocalizzate con i significherebbero vita, mentre vocalizzate con u significherebbero vuoto”.
Cari fratelli e sorelle,
noi abbiamo il potere di far parlare le lettere mute, immettendovi significati di vita e di comunione. A noi, quindi, la responsabilità di trovare le vocali giuste, attingendole all’alfabeto della Rivelazione, per riempire le parole di vita e di comunione. Le vocali giuste le troviamo sulle mani di Dio: “Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani” (Is 49, 16). Se sappiamo leggere il nostro futuro sulle mani di Dio, dietro l’angolo non ci sarà la paura del buio, ma la guida sicura di chi cammina secondo lo Spirito.
Amen.