Omelia per la Solennità di Sant’Archelao

Cattedrale di Oristano
15-02-2018

Cari fratelli e sorelle, riassumo il messaggio della Parola di Dio che è stata proclamata in questa solenne celebrazione in onore di S. Archelao, patrono della nostra Arcidiocesi, nel seguente triplice invito: rendere ragione di ciò che si spera, credere nell’esistenza della vita eterna, seguire Gesù portando ogni giorno la propria croce.

Anzitutto, l’Apostolo Pietro, scrivendo ai cristiani perseguitati del suo tempo, chiede loro di rendere ragione di ciò che credono e di ciò che sperano, e, allo stesso tempo, di rendere ragione con la vita e non con le parole, secondo lo stile di S. Ignazio di Antiochia, che raccomanda di essere cristiani senza proclamarlo e di non  proclamarlo senza esserlo. Questo invito vale in tutte le stagioni della vita, quelle elettorali comprese. L’Apostolo Pietro suggerisce di agire “con dolcezza e rispetto”. Ossia, senza fare battaglie identitarie o elevare muri divisori tra i perfetti e i peccatori, i cristiani e i pagani, i vicini e i lontani, i primi e gli ultimi. I primi e gli ultimi sono concetti relativi. Dipende dal punto di osservazione. Quello di Gesù e di Papa Francesco è diverso dal nostro. Per Gesù, gli ultimi saranno i primi. Anche lui, da pietra di scarto è diventato la “testata d’angolo”, la pietra angolare che fa da legame fra due muri (cfr. Mt, 21, 42). Sull’esempio di Gesù, la Chiesa non conosce la cultura dello scarto, ma solo quella del perdono, dell’accoglienza, dell’inclusione. Il metodo cristiano è quello inaugurato dal concilio di Calcedonia: “distinguere senza separare, unire senza confondere”, condividere orizzonti comuni di senso.

In secondo luogo, la storia dei fratelli Maccabei e la testimonianza del martirio di S. Archelao ci esortano a credere nella risurrezione dai morti e nell’esistenza della vita eterna. La verità più forte e anche più difficile del cristianesimo è proprio la risurrezione dai morti e la vita eterna. S. Agostino ha scritto che nessuna verità cristiana è stata tanto avversata quanto la fede nella risurrezione dai morti. Oggi, questa verità è minacciata da una concezione materialistica della vita. La vita è considerata un oggetto di cui si può disporre come e quando si vuole, in base al principio assoluto dell’autodeterminazione. Essa è una cosa come tante altre che, con la morte, si dissolve nel nulla. Ma, se non siamo capaci di guardare oltre il confine della morte fisica, se non siamo capaci di accendere nessuna stella d’infinito sul cielo dei nostri desideri, ogni legame terreno diventa precario, e il tempo, come la divinità  greca Kronos, divora sentimenti, affetti, speranze.

All’opposto di questa cultura radicale, il Concilio Vaticano Secondo, in un suo grande documento,  ha descritto l’indole escatologica della Chiesa peregrinante, e ci ricorda che “la nostra patria è nei cieli, e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 4, 20-21). Ciò non significa, tuttavia, che il cristiano viva guardando il cielo e disinteressandosi delle vicende terrene. Con il poeta romano Publio Terenzio, noi ripetiamo: “sono un essere umano, e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. La spiritualità cristiana, la dottrina sociale della Chiesa, i continui richiami del Magistero descrivono senza equivoci l’impegno del cristiano per la promozione del bene comune. Il Card. Bassetti ha riassunto recentemente l’azione pastorale del prossimo futuro nei tre verbi di ricostruire, ricucire, pacificare. Ha sottolineato l’urgenza di pacificare gli animi, superando quel “rancore sociale”, “alimentato dalla complessa congiuntura economica, dalla diffusa precarietà lavorativa e dall’emergere di paure collettive”. La Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a Cagliari nello scorso ottobre, ha individuato 400 “buone pratiche”, capaci di rendere concreto il lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale.

Infine, Gesù chiede ai suoi discepoli di seguirlo prendendo la propria croce ogni giorno. Il senso dell’invito di Gesù è quello di seguirlo fedelmente e senza condizioni. La sofferenza della croce, come tale, è il prezzo della fedeltà, il peso dell’amore, secondo la definizione di S. Agostino: amor meus pondus meum! Nella vita di ognuno, infatti, ci sono gioie e tristezze, paure di morte e speranze di vita, tentazioni di carriera e doveri di moralità. Nessuno è esente dalla prova e dalla tentazione. Le vie del cielo sono tutte dritte. Ma quelle sulla terra sono piene di curve, e nessuno sa chi o che cosa lo aspetti dietro l’angolo. È stato tentato Gesù. Sicuramente è stato tentato il martire S. Archelao, siamo tentati anche noi, ed abbiamo bisogno, perciò, di motivazioni forti e sicure per rimanere fedeli nel momento della prova. In ultima analisi, per il cristiano, portare la croce significa seguire un modo di essere, di credere, di amare, di perdonare. Uno può avere tutte le ricchezze del mondo, possedere tutti i beni della terra, ma se non ha qualcuno che gli dica: ti voglio bene, è la persona più povera del mondo. Abbiamo bisogno di relazioni. L’uomo senza relazioni muore. L’ha messo bene in evidenza anche un monologo del festival di San Remo, che ha descritto il bisogno di relazione di quelli che nessuno vede perché sono solo il “rumore di fondo” delle nostre città. “Perdersi o rovinare se stessi”, secondo il Vangelo, è proprio di chi cerca la dignità e la felicità nel possesso e nell’avere e non nell’essere. La vera ricchezza, quella che nessuno può toglierci, è amare ed essere amati, sentirsi amati da Dio e salvati da Gesù.

Per riconoscere e difendere con gesti concreti di amore questa ricchezza e questa dignità nelle persone sfortunate, la Chiesa Arborense propone un’iniziativa che si chiama “Dopo di noi”. Attualmente, opera in Diocesi la comunità Il Gabbiano, una struttura sociale che ospita una trentina di disabili, provenienti da tutto il territorio dell’Oristanese. Il futuro di queste persone diventa insicuro nel momento in cui non ci saranno più i genitori o i familiari per prendersi cura di loro. Al momento, nella comunità, sono allestite con stile familiare 6 stanze per ospitare altrettante persone. Queste stanze non bastano per soddisfare il bisogno crescente delle famiglie che hanno persone disabili. Vorremmo, allora, portare il numero delle stanze allestite almeno a 10. La Diocesi, con l’aiuto della Conferenza Episcopale Italiana, ha fatto la sua parte e ha investito una somma considerevole. Ora, per questa finalità di alto valore umanitario, la Diocesi lancia una raccolta fondi, rivolgendosi a tutti coloro che liberamente possono e vogliono contribuire ad allestire queste stanze. Un comunicato spiegherà il modo pratico della partecipazione. Per ora, ringrazio tutti coloro che, in piena libertà, vorranno condividere questa proposta.

Cari fratelli e sorelle, chiediamo al martire Archelao di non essere cristiani stagionali e opportunisti, ma discepoli coraggiosi che non vendono la coscienza per la carriera e non comprano il successo con la corruzione. Discepoli coraggiosi che sanno soffrire perché sanno amare, sanno guardare il cielo con i piedi per terra, sanno vivere e morire per il diritto del Vangelo. Amen.