Omelia per la solennità del Corpus Domini

18-06-2017

Cari fratelli e sorelle,

le indicazioni che riceviamo dalla Parola di Dio di questa celebrazione della solennità del Corpo del Signore sono due: vivere di Cristo; camminare con Cristo. Anzitutto, vivere di Cristo. Con la processione abbiamo portato il Santissimo per le vie della nostra città, per benedire famiglie e istituzioni, luoghi di dolore e di lavoro, persone devote e uomini indifferenti. Ma con la processione abbiamo solo compiuto un rito, abbiamo rispettato una tradizione di pietà popolare e una manifestazione della nostra devozione eucaristica. Quello che ci viene chiesto dalla Parola di Dio è di trasformare il rito e la devozione in un comportamento di fede e carità. Ci viene richiesto di vivere di Cristo, ossia, conoscerlo, amarlo, imitarlo. Come viene continuamente ripetuto, il cristianesimo è una persona, Gesù Cristo, non una legge, un programma di vita spirituale, un insieme di precetti e norme. Nel dialogo riportato dal vangelo che è stato proclamato nella celebrazione dell’Eucaristia, Gesù utilizza il linguaggio figurato di “mangiare la carne”, per chiedere ai suoi discepoli di vivere in piena comunione con Lui (Cfr. Gv 6, 53-54). In un’altra occasione, Egli ha detto che l’uomo “non vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). In altri termini, Gesù ci vuol dire che oltre alla vita materiale che si nutre del cibo della terra c’è anche una vita spirituale e soprannaturale che si nutre del cibo del cielo. Questo cibo è la sua conoscenza, l’assimilazione del suo insegnamento, l’assunzione dei suoi sentimenti. Vivere di Cristo è poter ripetere con san Paolo: “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2, 20). E’ anche avere il coraggio della giovane Gloria Trevisan di dire dal grattacielo in fiamme di Londra, prima di morire, alla mamma: “sto per andare in cielo. Vi aiuterò da lassù”, e alle amiche: “sarò il vostro angelo custode”.

Il frutto più significativo di vivere in piena comunione con Gesù, secondo quanto ha detto Papa Francesco nell’omelia per la Pentecoste,  è diventare un “popolo nuovo”. Lo Spirito di Gesù “crea la diversità e l’unità e in questo modo plasma un popolo nuovo, variegato e unito: la Chiesa universale. Dapprima crea la diversità; in ogni epoca fa infatti fiorire carismi nuovi e vari. Poi lo stesso Spirito realizza l’unità: collega, raduna, ricompone l’armonia”. “L’unità vera, quella secondo Dio, non è uniformità, ma unità nella differenza”.

Per vivere bene come comunità, come popolo nuovo, osserva il Papa, “è bene aiutarci a evitare due tentazioni ricorrenti. La prima è quella di cercare la diversità senza l’unità. Succede quando ci si vuole distinguere, quando si formano schieramenti e partiti, quando ci si irrigidisce su posizioni escludenti, quando ci si chiude nei propri particolarismi, magari ritenendosi i migliori o quelli che hanno sempre ragione. Sono i cosiddetti “custodi della verità”. Allora si sceglie la parte, non il tutto, l’appartenere a questo o a quello prima che alla Chiesa; si diventa “tifosi” di parte anziché fratelli e sorelle nello stesso Spirito; cristiani “di destra o di sinistra” prima che di Gesù; custodi inflessibili del passato o avanguardisti del futuro prima che figli umili e grati della Chiesa. Così c’è la diversità senza l’unità. La tentazione opposta è invece quella di cercare l’unità senza la diversità. In questo modo, però, l’unità diventa uniformità, obbligo di fare tutto insieme e tutto uguale, di pensare tutti sempre allo stesso modo. Così l’unità finisce per essere omologazione e non c’è più libertà. Ma, dice San Paolo, “dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17)”.

La seconda indicazione è camminare con Cristo. La vita dell’uomo è spesso paragonata a un cammino, un viaggio, un pellegrinaggio (Cfr. 1Pt 2, 11). Nella storia della salvezza abbiamo gli esempi del cammino del popolo ebraico nel deserto per quarant’anni, nutrito dalla manna (Cfr. Es 16), e di quello del profeta Elia in fuga dalla persecuzione della regina Gezabele. In questa fuga il profeta Elia cede alla stanchezza e allo sconforto e chiede di morire. Ma l’angelo del Signore lo nutre e “con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1Re, 19, 8). I primi cristiani erano chiamati “quelli della Via”, perché il cristianesimo era considerato una Via, un cammino (At 9, 2). San Paolo chiama i cristiani coloro che camminano secondo lo Spirito (Gal 5, 16). Tutto questo ci dice che il cristiano è un pellegrino chiamato a camminare con Cristo, a seguirlo (Cfr. Lc 5, 27). Si può camminare con Cristo, però, anche ignorando la sua presenza. E’ capitato ai discepoli di Emmaus, i quali, mentre ritornavano a casa dopo la morte di Gesù a Gerusalemme, delusi e dispiaciuti, non avevano riconosciuto l’uomo che si era affiancato per conversare con loro (Cfr. Lc 24, 15-35. Non riuscivano più a sperare dopo la morte di Gesù e saranno imitati, in tempi recenti, da coloro che, dopo le tragedie personali o le catastrofi sociali e naturali, non credono più nella potenza e nella bontà di Dio.

Una volta giunti a casa e aver invitato Gesù a restare con loro per la cena, tuttavia, i discepoli lo riconoscono nello spezzare il pane e decidono di ritornare subito a Gerusalemme, per raccontare ai fratelli l’incontro con Gesù Risorto. Il riconoscimento di Gesù avviene nello spezzare il pane e nel rendimento di grazie dell’ospite sconosciuto, ossia attraverso i gesti eucaristici. È certamente molto significativo che i discepoli non abbiano riconosciuto Gesù quando egli spiegava loro il senso della Scrittura e l’abbiano riconosciuto, invece, nella ripetizione dei gesti eucaristici dell’ultima cena, ossia nel prendere il pane, benedirlo, distribuirlo. Questo fatto ci insegna, tra le altre cose, che le spiegazioni e i ragionamenti anche più dotti ed eruditi sulle verità cristiane spesso non sono sufficienti per portare una persona alla fede. È necessario, perciò, dare testimonianza personale compiendo gesti credibili di carità e opere concrete di solidarietà.

Cari fratelli e sorelle,

questa sera abbiamo riconosciuto Gesù nello spezzare il pane della celebrazione dell’Eucaristia, lo abbiamo professato come Signore e Salvatore lungo le strade della nostra città. Imitiamo, allora, i discepoli di Emmaus: tornando nella vita ordinaria, dimostriamo d’avere incontrato Gesù, di voler vivere con Lui, camminare con lui, perché con lui prendono significato le cose che speriamo, quelle che soffriamo, quelle che gioiamo. Egli sarà sempre con noi. L’ha promesso solennemente: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Gesù mantiene la promessa. E’ sempre al nostro fianco. Ma noi ci rendiamo conto della sua presenza e della sua compagnia? O viviamo come se non l’avessimo mai conosciuto, non l’avessimo mai incontrato, perché la sua presenza ci disturba e giudica il nostro stile di vita, i nostri affari, i  compromessi della nostra coscienza? Se vogliamo essere onesti, trasparenti, solidari non abbiamo paura di vivere di Gesù, di camminare con Lui! Non saremo mai soli. Saremo sempre felici, perché in pace con Dio, con noi stessi, con il prossimo.

Amen.