Domenica delle Palme. L’approfondimento della Parola

Il vangelo della Passione non solo fotografa il volto di Gesù ma focalizza lo sguardo su tutti coloro che lo hanno incontrato: in loro ci possiamo sempre identificare

Commentare il vangelo della Passione è sempre un compito impegnativo sia per la portata teologica della narrazione, compresi i dettagli, sia per l’influenza che ha il tempo liturgico in cui lo leggiamo. Riflettere su questa sezione evangelica in un tempo di riposo o di gioia ci obbligherebbe a sottolineare maggiormente come essa non sia solo l’esito della vicenda di Gesù, ma la filigrana attraverso cui leggere l’incarnazione, la figura di Gesù e la fede della prima comunità.

Ascoltare la proclamazione di questa pagina è come tornare al nucleo fondamentale della fede, è scoprire quale sia il fondamento della nostra esistenza cristiana. Tuttavia, è estremamente significativo iniziare la Settimana santa e, quindi, introdurci al Triduo pasquale attraverso la narrazione della salvezza operata da Gesù.

Dunque, un racconto lungo e articolato, che fotografa non solo la vicenda di Gesù, ma focalizza lo sguardo su tutti coloro che lo hanno incontrato e sul modo con cui lo hanno accolto o rifiutato. La donna di Betania, i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi, Giuda Iscariota, Pietro, i dodici, il giovinetto, i presenti, i falsi testimoni, il sommo sacerdote e i suoi servi, i soldati e Pilato, Simone di Cirene e il centurione, i passanti e i crocifissi con lui, le donne, Maria di Magdala, la madre di Ioses e Salome, Giuseppe d’Arimatea.

Se fosse in una sceneggiatura cinematografica potremmo avere un cast di eccezione per l’interpretazione dei ruoli. Non abbiamo bisogno di attribuire ruoli, poiché già noi siamo alcuni di quei personaggi, nella nostra vita interpretiamo quei ruoli, somigliamo a quelle figure. Ognuno conosce se stesso (si spera!) e sa trovare il ruolo più adatto. Ma non basta fermarsi a questa immedesimazione, occorre andare avanti superando la stasi per avvicinare le donne e Giuseppe d’Arimatea. Avere il coraggio di guardare Gesù, di osservarlo, di essere identificati come coloro che lo hanno seguito dalla Galilea e che hanno il coraggio di chiedere il suo corpo. Non è ancora una vera e propria proclamazione della salvezza, ma è già tanto, è già un buon esito per una sequela zoppicante e complessa.

I più vicini fuggono e lo abbandonano; tra essi uno lo consegna e un altro nega di conoscerlo; i capi di Israele lo condannano senza appello; il governatore romano obbedisce a un’orchestrata e brutale folla; un delinquente viene inaspettatamente graziato; i soldati sfogano la loro rabbiosa noia contro lui; i condannati gli attribuiscono le loro bassezze attraverso l’ingiuria e la derisione; i passanti sporcano il quadro con i loro oltraggiosi insulti.

Meno male che c’è spazio ossigenante per la fuga inerme di un giovane che ha osato seguirlo nel buio della sera, chiarore in un centurione che riconosce oltre le scontate apparenze, forza in un’autorità del Sinedrio che ha avuto il coraggio di mettersi dalla parte di un reo ormai deceduto, coraggio di alcune donne che non si staccano dal loro maestro.

A cura di Michele Antonio Corona

Pubblicato su L’Arborense n. 11/2021