I verbi della Liturgia: adattare!

Spunti di riflessione per le nostre comunità.

Iniziamo una serie di spunti di riflessione su alcuni verbi indispensabili per poter celebrare bene nelle nostre comunità parrocchiali.

Il primo verbo, scaturito direttamente dalla Riforma Liturgica, è adattare. Si tratta, in buona sostanza, di mettere in atto un criterio pastorale indispensabile, al fine di ottenere una vera e fruttuosa celebrazione liturgica, specie quella eucaristica.

Ma cosa significa adattare la celebrazione alle concrete esigenze del concreto popolo di Dio chiamato a celebrare chi e ora, nel tempo e nello spazio? Da che cosa nasce quest’esigenza di adattamento e di creatività, nella celebrazione liturgica?

Per rispondere a queste domande, è necessario chiarire alcuni concetti base. Anzitutto occorre prendere coscienza, sempre di più, che la Chiesa non è solo una, unica e universale, (prima della Riforma questa percezione era un dato teologico universalmente accolto: tutte le celebrazioni erano, sostanzialmente uguali in qualsiasi posto del mondo, il rito e la lingua erano elementi unificatori). Con la Riforma liturgica e con l’ingresso nella liturgia delle lingue volgari, le celebrazioni sono diverse e diversificate: le lingue hanno veicolato e reso improcrastinabile l’esigenza dell’inculturazione della fede.

Certo, il mistero celebrato è sempre lo stesso, ma le modalità della celebrazione, e perciò anche la comprensione, possono variare. I linguaggi, i segni rituali, i gesti e i loro significati variano dal punto di vista antropologico.

Se guardiamo la gente che si sposta o per turismo o per lavoro, diciamo che è urgente fare alcune riflessioni sui continui cambiamenti di linguaggio onde veicolare i dati della fede che celebriamo. Per ampiezza, composizione culturale e situazioni ecclesiali, le nostre assemblee di culto sono ormai un mosaico complesso. Dal piccolo gruppo ai grandi raduni (ad es. nei luoghi di pellegrinaggio), dai quattro gatti presenti nelle nostre parrocchie nei giorni feriali, a certe messe domenicali, specie prima della pandemia, dove molti hanno solo un posto in piedi, da una celebrazione domestica o monastica al rito di un funerale, di un matrimonio o di un’ordinazione sacerdotale, il numero dei partecipanti può variare di molto e far variare, con questo, molti altri fattori.

Non solo: lo stesso quadro generale della cultura di oggi, non più unitaria ma spezzettata secondo le età, le condizioni sociali, le appartenenze ideologiche, si riflette nell’assemblea riunita. È raro che si formi, oggi, un’assemblea omogenea: spesso invece abbiamo a che fare con un insieme diversificato, dove l’apparente disciplina e la rituale inerzia nascondono idee, posizioni, gusti e reazioni molto differenziate. Infine: la situazione personale di chi frequenta le nostre assemblee può essere, dal punto di vista della fede, molto diversificato. C’è il frequentatore assiduo (il cosiddetto praticante); c’è il medesimo, ma in versione abitudinaria o legalistica; troviamo il saltuario e lo stagionale, il natalizio e il pasqualino; scopriamo che molti sono in ricerca, o in contestazione, o in rigetto di molti aspetti della vita ecclesiale; senza dimenticare chi è presente per cortesia, amicizia, obbligo sociale, convenienza. Non tutti sono sempre presenti in tutte le celebrazioni, è chiaro.

Ma il congiungersi, il separarsi e l’intrecciarsi di questi diversi dati di fatto, tracciano un quadro dell’assemblea assai lontano dall’immagine idillica del buon gregge e dei buoni fedeli. I destinatari perciò, anzi i protagonisti, dell’azione liturgica, costituiscono un’entità difficile da catalogare, descrivere, identificare in modo sbrigativo. Se a questi fattori dovessimo aggiungere un’analisi dei comportamenti e delle reazioni che essi comportano, il quadro ne risulterebbe ancora più intricato.

Mi sorge subito, una domanda: è possibile che si possa porre un solo tipo di rito se le assemblee sono così diverse?

A cura di Tonino Zedda (1. Continua)

pubblicato su L’Arborense n. 21/2021