La preparazione più fruttuosa alla nostra Pasqua è la conversione del cuore che ci viene ricordata continuamente sia dalla liturgia sia dalle illuminate motivazioni dei Papi San Giovanni Paolo II e Francesco.
Alla luce, per esempio, dell’enciclica di Giovanni Paolo II sulla misericordia divina Dives in misericordia, e, contemporaneamente, della Bolla Misericordiae Vultus di Papa Francesco, si può vedere come la Chiesa debba oggi annunciare, professare, attuare la misericordia. La Chiesa, scrive Giovanni Paolo II, vive una vita autentica, quando professa e proclama la misericordia e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice. Il fondamento per l’annuncio e la professione della misericordia è la verità che essa, in quanto perfezione di Dio infinito, è infinita. La prontezza e la disponibilità del Padre nell’accogliere i figli prodighi che tornano alla sua casa è infinita e inesauribile. Nessun peccato umano prevale o limita questa forza divina. Essa può essere limitata soltanto dalla mancanza di buona volontà dell’uomo, dalla mancanza di prontezza nella conversione e nella penitenza, ossia dal perdurare nell’ostinazione, “contrastando la grazia e la verità, specie di fronte alla testimonianza della croce e della risurrezione di Cristo” (Dives in misericordia, 13).
A partire da questa verità fondamentale, il primo modo di professare la misericordia è farne esperienza personale nel processo della propria conversione interiore. Questa consiste nello scoprire nella propria vita la realtà dell’amore divino, che è paziente, benigno, fedele fino alle estreme conseguenze, e la convinzione che solo chi è perdonato sa perdonare. «La conversione a Dio è sempre frutto del “ritrovamento” di questo Padre che è ricco di misericordia. L’autentica conoscenza del Dio della misericordia, dell’amore benigno è una costante ed inesauribile fonte di conversione, non soltanto come momentaneo atto interiore, ma anche come stabile disposizione, come stato d’animo. Coloro che in tal modo arrivano a conoscere Dio, che in tal modo lo “vedono”, non possono vivere altrimenti che convertendosi continuamente a lui. Vivono, dunque, in stato di conversione; ed è questo stato che traccia la più profonda componente del pellegrinaggio di ogni uomo sulla terra in stato di viandante» (Dives in misericordia, 13).
Il processo autenticamente evangelico, osserva Giovanni Paolo II, non è l’esperienza personale della misericordia una tantum, realizzata una volta per sempre. Esso deve diventare uno stile di vita, “una caratteristica essenziale e continua della vocazione cristiana. Esso consiste nella costante scoperta e nella perseverante attuazione dell’amore come forza unificante ed insieme elevante, nonostante tutte le difficoltà di natura psicologica e sociale; si tratta infatti di un amore misericordioso che per sua essenza è amore creatore. L’amore misericordioso, nei rapporti reciproci tra gli uomini, non è mai un atto o un processo unilaterale. Perfino nei casi in cui tutto sembrerebbe indicare che soltanto una parte sia quella che dona ed offre, e l’altra quella che soltanto riceve e prende (ad esempio, nel caso del medico che cura, del maestro che insegna, dei genitori che mantengono ed educano i figli, del benefattore che soccorre i bisognosi), in verità tuttavia anche colui che dona viene sempre beneficato. In ogni caso, anche questi può facilmente ritrovarsi nella posizione di colui che riceve, che ottiene un beneficio, che prova l’amore misericordioso, che si trova ad essere oggetto di misericordia”.
In definitiva, ognuno di noi conosce gli interventi di misericordia divina nella propria vita, perché solo noi sappiamo quante volte siamo stati perdonati e quante volte siamo stati sollevati dalla polvere dei nostri peccati. Tanto più numerosi sono questi interventi tanto più convinta è l’esperienza della grandezza dell’amore divino, e tanto più forte è il nostro debito di perdono e misericordia.