Amare Dio e il prossimo: la sintesi evangelica.
Nella lingua italiana, prossimo è il grado superlativo dell’aggettivo vicino. Per la grammatica, pertanto, è scorretto dire il più prossimo, proprio come sarebbe il più bellissimo o il più migliore.
Nei vangeli? Il nostro linguaggio ecclesiale ci ha concesso in molti casi queste licenze evangeliche, ma senza il supporto della grammatica. Il prossimo è quello che ci sta vicino, il più vicino, il più vicino in assoluto. Nel greco del NT può essere usato come aggettivo o come sostantivo, come nel brano di Matteo.
L’evangelista ci tiene moltissimo a questa espressione di Gesù, ripresa dal libro del Levitico, che la ripropone tre volte (5,43; 19,19; 22,39). Nel passaggio che ci offre la liturgia si cita un fariseo che si accolla il compito di mettere alla prova il maestro in una delle questioni più dibattute e, alla fin fine, la più importante di tutte: qual è il centro della Torah, della vita, della fede? Potremmo dire, forzando un po’ il testo, che il fariseo chiede il comandamento prossimo, quello più vicino al cuore, alla tradizione veterotestamentaria, a Dio stesso.
È curioso che Gesù non citi nessuna delle dieci parole, ma metta insieme (come già facevano alcuni rabbini) la preghiera dello Shemà Israel e una norma che scaturisce dall’essere santi come Dio è santo. Ecco il grande mistero della prossimità richiamata da Gesù.
In primo luogo l’aspetto della preghiera e del colloquio con Dio. Amare – verbo che ha permesso la congiunzione dei due testi – si declina con la necessità del tutto (cuore, anima e forze). La relazione con Dio non può essere parziale, faziosa, a intermittenza. Non si può un po’ amare e un po’ odiare, poiché nessuno dei due sarebbe autentico. O si ama tutto o non si ama niente. Una cosa può piacere in parte, può essere apprezzata in parte, ma non può essere amata in parte.
Così la prima faccia di questo amore è legato a una relazione autentica con Dio che prevede e pretende il criterio della totalità. Il Padre è prossimo all’uomo e questi si rende prossimo a Dio nell’ascoltarlo e rispondendo all’amore. Infatti, anche nel decalogo si annuncia che Dio ha liberato come primo movimento. Il resto è risposta dell’uomo a questa decisione di amore da parte di Dio.
Inoltre, questo amore è da riversare sul più vicino, su quello con cui vivo e lavoro gomito a gomito, quello che mi pesta i piedi più di tutti, essendomi vicino. Oltre al significato spaziale dell’essere vicini, si può leggere anche quello relazionale, civile, sociale. Sì, il prossimo è chi mi è vicino ogni giorno in casa, nell’ambito lavorativo, in quello ludico, religioso, di progettazione.
Gesù porterà all’estremo questo concetto di prossimità tra Dio e l’uomo nel grande discorso del capitolo 25 secondo cui ciò che è stato fatto a uno tra i piccoli è stato fatto a lui. Il comandamento è davvero uno: Amare Dio nei fratelli.
Nella prima lettura si esemplificava questo con il forestiero, la vedova, l’orfano e l’indigente: quando essi grideranno a Dio, egli li ascolterà, perché è pietoso.
A cura di Michele Antonio Corona
Pubblicato su L’Arborense n.36/2020