Vicenda di Alfie Evans: la persona umana deve essere punto d’incontro

articolo di Stefano Mele, docente di bioetica presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna

La disavventura umana e giudiziaria di Alfie Evans ha interrogato la coscienza etica di gran parte dell’opinione pubblica internazionale, ci ha costretti a riflettere ancora e necessariamente sugli scopi e i limiti della medicina, sul significato del Diritto e della giustizia, sul senso della dignità e della solidarietà umana.
L’intervento del governo italiano e la concessione ad Alfie della cittadinanza, che mirava a rendere più facile il suo trasferimento a Roma, mi ha personalmente inorgoglito, al di là dei colori politici. Nella Chiesa non sono mancate incertezze e ambiguità, ma i ripetuti, chiari e decisi interventi del Papa, la totale disponibilità dell’ospedale Bambin Gesù a prendersi cura di Alfie, la preghiera di tanti, mi hanno commosso e confermato nell’impegno a favore della vita. C’è chi ha denunciato l’incoerenza “dei cattolici”, che si sono mobilitati per la vita di questo bambino, mentre non si mostrerebbero ugualmente impegnati nell’accoglienza degli immigrati e nella cura della loro salvezza. Il Papa, al contrario, veniva accusato di pensare agli immigrati e disinteressarsi dei problemi bioetici. Deve essere chiaro per tutti: la vita di ogni persona ha sempre un uguale, incondizionato e sommo valore che si chiama dignità! Tale dignità è propria di ogni uomo, in ogni sua dimensione, corporale o spirituale, ad ogni età, dal concepimento alla morte naturale, non potendo essere annullata o diminuita da nessun altra caratteristica di ordine fisico, psichico, morale, culturale, ecc. Se i cristiani devono progredire nell’accogliere pienamente e vivere con maggior coerenza il Vangelo, l’incoerenza però non è un difetto tutto loro.

La drammatica vicenda di questo piccolo uomo, terminata con la sua morte, il 28 aprile, ha suscitato riflessioni e sentimenti contrastanti. La contrapposizione tra laici(sti) e cattolici risulta come sempre strumentale, finalizzata a far apparire le posizioni dei credenti come fondate esclusivamente su argomenti religiosi. Così non è, sebbene comincino a pensarlo anche molti credenti. Come accade ormai troppo spesso, ci è tanto difficile comprendere a fondo la realtà da non sapere da che parte stare, da rinunciare al faticoso discernimento etico, da rifugiarci nei luoghi comuni e nel disinteresse oppure in ogni genere di fanatismo ideologico, cercando sostegno in sofismi così strampalati da risultare palesemente contraddittori.

Ad esempio, parlare di accanimento terapeutico, in questo caso è stato del tutto fuorviante. Non si può parlare di terapia quando neppure si è riusciti a fare una chiara diagnosi. Forse non c’era il tempo per farla, forse Alfie non poteva guarire e salvarsi in ogni caso; il nodo della questione però è se la medicina debba non solo guarire le persone, ma anche prendersi cura di loro, se le persone inguaribili e i malati gravi conservino o meno la propria dignità umana, se la solidarietà significhi porsi al fianco di chi lotta contro un male, accompagnarlo, alleviando le sue sofferenze o abbandonarlo alla sua disperazione. Nel caso di Alfie si è mostrata ancora la facile e falsa equazione: se non puoi guarire, se non puoi essere sano, la tua vita non ha senso, tu non vali come prima, hai perso la tua dignità e per te è meglio morire. Se non possiamo togliere la malattia/sofferenza risolviamo nel togliere (la vita a) il malato/sofferente (!). Stiamo parlando dei principi fondamentali della medicina e più ancora della morale, della capacità di distinguere il bene (vita) dal male (morte), di scegliere ciò che realizza la persona e di fuggire ciò che la distrugge, ad ogni livello.

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L’accanimento dei medici e dei giudici inglesi nei suoi confronti non è stato di tipo “terapeutico”, ma è stato scandalosamente di tipo “tanatologico”, cioè per la morte! La pervicace volontà in tal senso si è concretizzata nell’incredibile rifiuto che altri medici e strutture ospedaliere potessero tentare una diagnosi e un’eventuale terapia sperimentale o che se ne prendessero cura fino alla morte naturale. Si è rivelata pure una sorta di Statolatria, in cui ai genitori è stato negato il naturale ed essenziale compito di tutelare i propri figli. Qualcuno ha difeso questo potere dello Stato contro la possibilità dei genitori di richiedere «i trattamenti sanitari dei figli sulla base dei loro soli desideri e credenze; sarebbe allora sensato che i testimoni di Geova negassero le trasfusioni ai figli minori…». In realtà ai Testimoni di Geova lo Stato toglie la patria potestà solo e proprio quando mettono in pericolo la vita dei figli; nel nostro caso, invece, è successo esattamente il contrario: ai genitori di Alfie lo Stato ha impedito, anche attraverso il dispiegamento delle forze di polizia, che lo affidassero alle cure di altri eminenti medici, giudicando “nel suo miglior interesse” che morisse!

In questo caso è stato clamorosamente violato anche il principio di autodeterminazione sul quale si vorrebbe fondare un irragionevole “diritto di morire” ed è apparso chiaro come quel “diritto” si trasformi ben presto in un “dovere”, quello di togliere il disturbo. Ricordiamoci che prima di Alfie, un uguale trattamento, nel loro “miglior interesse”, è toccato a Isaiah Haastrup, morto il 7 marzo scorso, e a Charlie Gard, morto il 28 luglio dell’anno scorso. Altre persone, sia nel recente passato che nel presente, si sono trovate e si trovano in situazioni analoghe. «In una simile prospettiva la morte si configura come un vero e proprio dovere di carattere morale e giuridico che la società impone ai soggetti più deboli, per non sopportarne il peso esistenziale, o per sfruttarne gli organi, come vere e proprie “dispense biologiche”, o perfino per motivazioni di carattere contabile, cioè per ottenere risparmi nell’economia del sistema sanitario di riferimento» (A. Vitale).

Se in Inghilterra sono i medici a decidere sulla sospensione dei sostegni vitali (ventilazione, alimentazione e idratazione assistite), che – lo ricordo – non sono terapie, in Italia, con la nuova legge “in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la scelta spetta ai malati e ai loro fiduciari, mentre il medico ha l’obbligo di eseguire tale desiderio. In entrambi i casi però, l’alleanza terapeutica tra medici e malati (per la tutela della vita, della salute e dell’alleviamento del dolore) è stata sostituita da un rapporto di potere degli uni sugli altri, ed è un potere di morte.

Abbiamo tutti bisogno di rinsavire, recuperare il senso della dignità dell’uomo e rafforzare l’impegno a tutela e promozione dei suoi diritti fondamentali. Nello stesso giorno in cui moriva Alfie, introducendo i lavori di una conferenza internazionale in Vaticano, il Papa si è rivolto ai partecipanti con queste parole di speranza: «quando vedo rappresentanti di culture, società e religioni differenti unire le loro forze, intraprendendo un percorso comune di riflessione e di impegno a favore di chi soffre, mi rallegro perché la persona umana è punto d’incontro e “luogo” di unità. Infatti, di fronte al problema della sofferenza umana è necessario saper creare sinergie tra persone e istituzioni, anche superando i pregiudizi, per coltivare la sollecitudine e lo sforzo di tutti in favore della persona malata».