I Gosos della Quaresima: Maria isconsolada.

I versi poetici, diffusissimi nelle nostre comunità, sono intrisi di fede e devozione.

Così dice il Signore: Una voce si ode in Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più (Ger 31,15).

Questo brano del profeta Geremia viene citato nel Vangelo di Matteo nell’ambito del racconto della “strage degli innocenti” (Mt 2,16-18). L’evangelista precisa: perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta.

Una profezia, dunque, che si aggiunge a quella fatta a Maria da un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio (Lc 2,25). Maria è al Tempio di Gerusalemme per offrire Gesù a Dio, e il santo Simeone le dice: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori.

E anche a te una spada trafiggerà l’anima (Lc 2,34-35). Sul termine spada sono state scritte pagine bellisime della letteratura cristiana, in ogni modo essa è uno strumento che genera dolore. Rachele e Maria: due donne che hanno sofferto per i propri figli.

Si tratta del dolore più profondo e lacerante che esista: una mamma che perde suo figlio. La Quaresima è il tempo della penitenza, ma è anche il periodo in cui la Chiesa ci chiama a riflettere sulla passione di Gesù, cui era unita indissolubilmente Maria. Il tema della Vergine sofferente per la passione di Gesù, è già presente nei Padri della Chiesa e negli autori medioevali come S. Bernardo ritenuto autore del Liber de passione Christi et dolore et planctu Matris eius; o Tommaso da Kempis che scrisse L’imitazione di Maria; lo troviamo poi in sinodi locali (il sinodo di Colonia del 1423 stabilì il culto dell’Addolorata in opposizione agli eretici ussiti che distruggevano le immagini di Maria sofferente) e nella Liturgia (il 9 giugno 1668 la Congregazione per i Riti concedeva ai frati dell’Ordine Servita di celebrare l’Ufficio dei Sette Dolori e la festa la terza domenica di settembre; culto poi esteso a tutta la Chiesa da papa Pio VII nel 1814).

Su quest’unione insegna S. Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Mater: Tale benedizione raggiunge la pienezza del suo significato, quando Maria sta sotto la Croce di suo Figlio (Gv 19,25). Il Concilio afferma che ciò avvenne non senza un disegno divino: Soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata, in questo modo Maria serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce (n.18).

L’autore dei gosos de Sa segunda Dominiga de Caresima ci invita a fermarci e contemplare il dolore di questa mamma, che vede il figlio inchiodato alla croce: Cal’est su coro ostinadu chi non piangat cun Maria, chi cun tanta tribulìa bidet su fizu incravadu? (sa torrada). Il filo conduttore è la domanda che ci è stata appena posta: è possibile rimanere indifferenti al dolore di questa mamma? Lo scopo dello scrittore è di portarci a dire No. Siamo un pittore che dipinge un quadro che deve colpire lo spettatore e coinvolgerlo nel dolore materno di Maria.

Con questi gosos crea nel fedele la compassione per Maria. Ognuno di noi può piangere con lei per i tormenti di Gesù: Tottus poden in cunzertu cun Maria lagrimare, su dolore cuntemplare. Fettamus forte lamentu de sas penas e turmentu chi a su Fizu han dadu (strofa 1). Maria non smette di piangere, inconsolabile proprio come Rachele: Non cessat de lagrimare Maria isconsolada (strofa). Non può la mamma che vede s’unicu Fizu ispirare (strofa 5), de ispinas coronare, de samben tottu bagnadu (strofa 2) non piangere, non disperarsi. Il volto, lo sguardo o il sorriso di un figlio sono consolazione per una mamma, oggi invece il volto di Gesù diventa motivo di dolore per Maria: Sa cara santa sagrada chi fit consolu a Maria, oe est causa de agonia cale bido insambenada, de ispudos imbrutada e su colore mutadu (strofa 4).

I gosos si aprono con una domanda forte e si concludono con una altrettanto forte, quasi offensiva per i toni e le parole, ma che porta a giudicare la nostra situazione di peccatori davanti alla passione di chi sta donando la vita per salvarci: Ostinadu peccadore, perversu, iniqu e ingratu, non ti resolves in piantu cun verdaderu dolore, faghende una confessione ca dês perdonadu? (strofa 7).

A cura di Giovanni Licheri.

Pubblicato su L’Arborense del 15 marzo 2020.


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