Ci viene offerto un pane sostanzioso capace di saziare la nostra fame
Il normale corso della lettura semicontinua (alcuni dicono discontinua!) del vangelo di Marco si interrompe per quasi tutte le domeniche di agosto e ci viene offerto il capitolo VI del vangelo di Giovanni.
Per questo motivo, merita attenzione non solo il brano di questa prima domenica agostana, ma una riflessione che si può fare in modo più ampio. Il pane è l’elemento portante, ma di pari interesse sono alcune altre azioni: la moltiplicazione dei pani e lo sfamare la folla; l’accostarsi di Gesù alla barca dei discepoli camminando sulle acque; la catechesi sulla manna e sul pane che non perisce; il senso profondo di un pane che dona la vita autentica; l’identità del donatore e del pane vero che discende dal cielo; il differente racconto del pane eucaristico, rispetto alla tradizione sinottica dell’ultima cena.
Questi elementi sono il modo giovanneo di indicare Gesù come colui che dona il pane ed è il pane stesso, che va mangiato per non avere più fame. Il mangiare non è solo cibarsi di qualcosa per sostentarsi (fruibilità) o per avere energie per operare (funzionalità), ma è l’atto stesso della fiducia in chi dona quel cibo (filialità).
Le domande che vengono rivolte a Gesù sono indicative per comprendere il modo in cui si cerca di spostare l’attenzione sul fare e sull’agire, piuttosto che sul come si è. Certamente, era un modo tipico del credente, anche biblico, preoccuparsi della morale e in essa mostrare la propria fede. Basti pensare alle tante norme di purità rituale e alimentare, che manifestavano quale fosse la personale fede e a quale cerchia sociale e religiosa si appartenesse. Gesù non le rifiuta in toto, ma chiede che esse corrispondano a un cuore che ama, a una mente che capisce, a una persona che nella sua interezza opera in relazione col Padre.
Nella prima lettura di Esodo è evidente che la manna non è data per fare un prodigio o per operare un miracolo, ma perché si riconosca chi è il Signore. Senza questo costante passaggio si rischia continuamente il fraintendimento, l’ambiguità, la banalizzazione, la fruibilità e la funzionalità del rapporto con Dio. Posso dichiararmi credente, cattolico, romano, legato alle tradizioni, moralmente ineccepibile, virtuoso e impegnato, ma rimango lontano anni luce dalla vita vera donata dal pane che si è incarnato. Non lo accolgo, non lo riconosco, non lo desidero, non lo indico agli altri. Corro il pericolo di ricercare continuamente il pane di Mosè e non quello donato dal Padre, di disconoscere il ruolo salvifico attribuendolo a personaggi che hanno solamente il compito di farmi conoscere la paternità di Dio.
Non appaia fuori luogo ricordare quante energie troppi credenti stanno usando nel dibattito poco fraterno sulla liceità delle dimissioni di papa Benedetto, dimenticando il preziosissimo insegnamento che ci ha dato con la sua scelta, e l’eroica accoglienza di papa Francesco per un servizio così gravoso e delicato.
Con la lettera agli Efesini possiamo ricordarci di abbandonare l’uomo vecchio con le sue passioni ingannevoli per rinnovarci nello spirito accogliendo il dono gratuito e incalcolabile del pane eucaristico.
A cura di Antonio Michele Corona
Pubblicato su L’Arborense n. 28/2021