Oristano e l’Arcidiocesi arborense hanno celebrato il loro patrono

La città di Oristano e tutta l’Arcidiocesi arborense hanno rinnovato, lunedì 13 febbraio 2023, il loro affetto e la loro devozione al Santo patrono Archelao.

In una Cattedrale in cui finalmente non erano necessarie più misure precauzionali per la pandemia così come accaduto negli ultimi due anni, alla presenza delle autorità civili e militari cittadine e di tanti fedeli, ha presenziato il solenne pontificale mons. Giuseppe Baturi, Arcivescovo Metropolita di Cagliari e Segretario Generale della CEI.

A lui, mons. Roberto Carboni, all’inizio della celebrazione ha rivolto parole di gratitudine e amicizia: La sua fraterna presenza è segno di dialogo tra le nostre diocesi e di personale attenzione alla nostra realtà diocesana come Segretario Generale della CEI. La ringraziamo perché si è reso disponibile non solo ad accompagnarci nella preghiera e nello spezzare la parola per noi, quanto per attualizzarci il messaggio del nostro patrono Archelao. Le auguriamo di continuare, sostenuto dallo Spirito, il suo fecondo servizio nell’Arcidiocesi di Cagliari e il delicato impegno di Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, luogo in cui la Chiesa fa convergere le preoccupazioni e le speranze di tutto il momento attuale.

L’Arcivescovo di Cagliari, nella sua omelia, ha esordito sottolineando il significato della festa del santo patrono di una città definendola come occasione preziosa per riflettere su ciò che tiene insieme, oggi, una società civile e sul contributo che la comunità cristiana può e deve dare in un contesto di crescente pluralismo culturale e religioso. Poi si è fatto guidare da una citazione di Giorgio La Pira su come le città abbiano una loro vita e un loro essere autonome, misteriose e profonde:

Esse hanno un loro volto caratteristico e, per così dire, una loro anima e un loro destino, sosteneva il politico e giurista italiano. Esse non sono occasionali mucchi di pietre ma sono le misteriose abitazioni di uomini e, in un certo modo, sono le misteriose abitazioni di Dio.

Le città non sono ammassi casuali di uomini e cose ma hanno una loro peculiare voce, come un mistero e una vocazione nelle quali è inserita l’esistenza di ciascun uomo che vi abita e vi lavora, ha spiegato mons. Baturi. Il radicamento dell’uomo in una città è tale che vi si sente sempre legati. Anche se le circostanze della vita ci portano a vivere e lavorare lontano da essa, quale vocazione tiene uniti come un unico organismo un’officina, una scuola, la Cattedrale, i palazzi della politica? Quale mistero lega persone provenienti da tradizioni diverse, popoli e culture anche lontane dalla nostra originale? Due domande che l’Arcivescovo ha posto a sé stesso ma che hanno certamente provocato i presenti. I

l Cristiano posa il suo sguardo sulla Casa comune anzitutto cercando le tracce del Dio dell’Universo, scrive papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Evangeli Gaudium: abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopre quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita; egli vive tra i cittadini, promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Abbiamo bisogno di riconoscere la città con sguardo puro, per scoprire in essa Dio. Dio abita in città, Dio abita in Oristano, può essere riconosciuto da occhi contemplativi che scorgono le sue tracce nella ricerca degli uomini che, sani o ammalati, in attesa di buone notizie o delusi dalla vita, sperano un’esistenza bella e dignitosa, sperano di incontrare una ragione adeguata di vita, un perdono che faccia ricominciare, persone che facciano credere nella bontà del destino. Cerchiamo Dio perché vogliamo vivere felici, ha sottolineato mons. Baturi facendo un attimo di pausa nel suo parlare. Dio abita in ogni gesto di fraternità e solidarietà che trasformano un insieme di uomini soli in una vera comunità di vita.

Cosa trasforma un gruppo di individui in un popolo? Non certo la convenienza degli interessi o la forza del potere ma è la concorde comunanza delle cose che si amano che fonda un vero popolo. La memoria del recente passato e la consapevolezza dei drammi del presente rendono evidente che nelle situazioni di crisi può rinnovarsi la consapevolezza circa l’amore che costituisce il cuore di una comunità e ne determina la forza aggregante.

È in questo passaggio che l’Arcivescovo di Cagliari ha rivolto il suo sguardo al martire Archelao: Di quale Amore parliamo? Guardiamo il martire Sant’Archelao. Siamo riuniti qui non certo per un interesse ma per guardare a lui che si è spogliato di tutto; non siamo qui per eccitarci alla conquista di un potere sugli altri: Archelao ha dato la vita in un gesto di apparente sconfitta, nel segno umano di una morte che mette fine alle speranze. È morto per amore, per quell’amore che ha ravvivato la sua vita. Si può morire solo per una ragione che dà senso al vivere. È l’amore totale del martirio, l’amore che vince la morte, e questa festa, dopo centinaia e centinaia di anni, è come un frutto della Resurrezione, un segno potente della Resurrezione: non rassegniamoci a qualche amore effimero, che non promette tutto, che si affida solo alla debole trama dei sentimenti. Il Vangelo contiene una sorta di confessione di Gesù, il buon pastore che offre la vita per le pecore, le conosce come il padre conosce lui stesso e offre la vita per condurle al bene ultimo.

Da qui, a conclusione della sua omelia, il Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, ha trasformato la sua riflessione in invito a saper avere cura dell’altro come segno di appartenenza a un’unica grande comunità. L’amore si fa cura, conoscenza, amicizia e sostegno. Ecco l’amore che Archelao ha testimoniato e che chiede di essere imitato da ciascuno di noi. Serve una nuova etica della cura, una cultura della cura fondata sull’etica del non poter non vedere e sentire, del saper guardare gli altri, i loro bisogni e problemi, avendone compassione, avvicinandosi ed entrando in comunione. Il contrario della Curia è l’incuria, che si esprime come indifferenza ed egoismo individualista. Indifferente è colui che guarda da un’altra parte; individualista è chi guarda soltanto il proprio interesse. Diventiamo incuranti quando siamo sordi alle domande della realtà, specie della sua parte più fragile: il pericolo è che, a poco a poco, diventiamo insensibili alle tragedie degli altri e le consideriamo come qualcosa di naturale.

Sono così tante le immagini che ci raggiungono, noi vediamo il dolore ma non lo tocchiamo, sentiamo il pianto ma non lo consoliamo, vediamo la sete ma non la saziamo, ci ripete sempre papa Francesco. L’incuria è proprio uno dei tratti del nostro modello sociale: tante diseguaglianze sono anche frutto di indifferenza e individualismo, serve una comunione più profonda, una condivisione nuova. La qualità di una comunità si riconosce per il sentimento di un’appartenenza reciproca, per l’emergere di un noi solidale che non annulla l’io ma lo integra e lo compie. L’io personale vive nel dono e nella responsabilità del noi, ha concluso l’Arcivescovo Baturi.


Guarda l’omelia integrale dell’Arcivescovo Baturi sul Canale YouTube dell’Arcidiocesi di Oristano

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