… e i due saranno una sola carne (Gn2, 24).
Una delle cose che ha storicamente caratterizzato la società sarda (e che più grandi dibattiti ha suscitato tra storici giuristi) è stato il singolare assetto dei rapporti interpersonali, caratterizzato da una sostanziale parità giuridica tra i cittadini e tra uomini e donne, che ne faceva pressoché un’eccezione nel mondo medievale e moderno. Colpisce soprattutto l’istituto della comunione dei beni tra i coniugi, che appare come il regime della proprietà tipico del matrimonio nel Medioevo sardo. I documenti lo qualificano spesso come matrimonio a’ sa sardísca e lo contrappongono al sistema dotale, d’importazione continentale, talvolta chiamato a’ sa pisanísca (alla pisana, perché era penetrato in Sardegna a partire dal XII secolo grazie all’influenza pisana sull’Isola).
L’assetto del matrimonio sardo, in verità, non era una novità assoluta, dato che esso poggiava sul cosiddetto matrimonio non scritto bizantino, compiutamente disciplinato dall’Ecloga dell’Imperatore d’Oriente Leone III Isaurico (714-741). Un imperatore sciagurato, perché iniziatore della controversia sul culto delle immagini, ma per altri versi non privo di meriti. L’Ecloga (“Scelta, Selezione” di leggi) disciplinava due forme distinte di matrimonio: quello scritto (èngrafos gàmos) stipulato davanti a un notaio alla presenza di tre testimoni, il cui scopo primario era quello di definire gli assetti patrimoniali della famiglia; e quello non scritto (àgrafos gàmos), celebrato in chiesa davanti agli amici degli sposi. Che, si presume, era la forma più adatta ai ceti sociali meno abbienti (ovvero la maggior parte della popolazione). Proprio questa forma di matrimonio sarà quella che si affermerà in Sardegna, favorita dal legame che fino al X-XI secolo la nostra Isola mantenne con l’Impero d’Oriente.
Una disciplina espressa della cóia sardísca o a’ módu sardíscu, in realtà, è assente nella Carta de Logu. La sua esistenza è presupposta, e il legislatore (i giuristi al servizio di Mariano IV e sua figlia Eleonora) si limita a disciplinarne alcuni aspetti in relazione a disposizioni che riguardano, in particolare, il diritto successorio (ad esempio, i capitoli 97 e 98). Nulla è espressamente detto riguardo ai diritti e doveri dei coniugi, ma l’assetto generale della società sarda, le consuetudini e altri documenti lasciano intravedere un sistema fortemente egualitario, molto diverso dalla società di tipo feudale e patriarcale del Continente. Si tratta, evidentemente, di una legislazione estremamente scarna. Ben poca cosa rispetto alle disposizioni dettate, ad esempio, riguardo al diritto agrario.
E tuttavia, il fatto che esse siano rimaste in vigore in Sardegna fino al XIX secolo le rende molto importanti, perché testimoniano di un modo di sentire che troverà consacrazione nel Diritto Italiano solamente con la riforma del Diritto di Famiglia del 1975. Solo allora il marito smetterà di essere il capo della famiglia (art. 131 cc del 1865 e art. 144 cc del 1942) con la moglie tenuta a seguirne la condizione fino a prendere il di lui cognome. Un uso che in Sardegna non riuscì a imporsi nemmeno ai tempi del Fascismo! Solo allora l’art. 143 del Codice Civile stabilirà che Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumo gli stessi doveri. E solo allora la comunione dei beni diverrà il regime patrimoniale tipico nell’Ordinamento Italiano (art. 177-179 cc). E la Bibbia? A differenza delle legislazioni moderne (che disciplinano anche la forma delle celebrazioni), il Pentateuco dà per presupposto l’istituto matrimoniale, e detta una disciplina frammentaria riguardo a questioni come l’infedeltà coniugale, il ripudio e così via.
Quello che da esse traspare, però, è una visione complessa del matrimonio influenzata da fattori storici e sociali. Una visione in cui l’evidente sottoposizione della donna all’uomo contrasta in modo stridente con altri passi biblici in cui la dignità della donna è esaltata. Forse, per dire una parola definitiva su queste norme, bisogna rendersi conto che esse sono prescrizioni umane imperfette destinate a esseri umani imperfetti, come chiariscono le parole di Gesù sul ripudio. Questo, così come il nostro divorzio, è un rimedio, se così si può dire, concesso ai coniugi per uscire da una situazione che essi stessi hanno reso intollerabile per la durezza del loro cuore. Ma non è questo il progetto di Dio. In Principio, infatti, il Creatore li creò maschio e femmina, e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie … Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi (Mt 6, 3-9).
A cura di Gian Matteo Mureddu
Pubblicato su L’Arborense n.13 del 2023