Le letture sacre che abbiamo ascoltato nella liturgia della Parola di questa domenica di pasqua ci presentano fondamentalmente un evento, un annuncio, un’esortazione. Il vangelo ci racconta l’evento della risurrezione che ha per protagonisti tre testimoni: la Maddalena, l’apostolo Giovanni e l’apostolo Pietro. Questi protagonisti corrono al sepolcro oppressi dalla tristezza per la fine ingloriosa del loro Messia. Nessuno di loro crede ancora alla risurrezione. Infatti, la prima reazione della Maddalena davanti al sepolcro vuoto è il pensiero di un furto del corpo di Gesù. Nonostante tutti gli anni trascorsi in compagnia del Maestro, nonostante l’ascolto dei suoi ripetuti annunci ed insegnamenti, nonostante l’assistenza ai suoi miracoli per ridare la vita a Lazzaro, al figlio della vedova di Naim, alla figlia di Giairo, i discepoli prediletti non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli, cioè, doveva risuscitare dai morti. I protagonisti, perciò, corrono al sepolcro non per constatare la risurrezione, ma per sincerarsi del furto del corpo di Gesù. Ciò dimostra che le tragedie della vita rendono sempre molto difficile la speranza in un futuro di salvezza.
Mentre, ora, nella corsa verso il sepolcro, essi sono ancora increduli, all’arrivo alla meta, diventano improvvisamente credenti. Il passaggio dall’incredulità alla fede è troppo immediato, per essere spiegato dalle leggi della psicologia. Esso è opera della grazia, la quale opera secondo i tempi di Dio e non quelli della psicologia. I tempi di Dio sono quelli della creazione dal nulla, sono quelli, quindi, che possono cambiare l’orientamento di una vita e la conversione di una coscienza nel giro di un istante. Possiamo, ad ogni modo, considerare la corsa dei testimoni come un itinerario di fede, segnato dalle diverse tappe del “vedere”: esso passa dalla semplice vista di una pietra ribaltata nel sepolcro, alla vista delle bende e del sudario ripiegato, a un vedere personale che sfocia nella fede, che sarà perfezionata dalla comprensione della Scrittura. Ciò ci fa capire che quando si guarda “con gli occhi di Dio” si scorgono germi di vita anche nei campi della morte. La fede cristiana, infatti, confessa e crede la risurrezione vedendo dei segni di morte. E’ la fede nella Parola del Signore che consente di iniziare e continuare a credere la risurrezione in mezzo agli innumerevoli segni di morte che attraversano la nostra vita e il nostro mondo.
L’esortazione è quella di San Paolo a cercare “le cose di lassù”. L’edonismo e il consumismo della nostra gente, lo sguardo corto che vede solo il benessere materiale inclinano a guardare in basso e a dimenticare il cielo. Il testo, invece, ci esorta a guardare in alto, in cielo, dove ha stabile dimora la nostra salvezza. I desideri di vita e di felicità che nutriamo provengono dall’alto, dalle stelle, le quali non custodiscono fatalisticamente il nostro destino, ma illuminano il progetto di Dio. Il richiamo del cielo, tuttavia, non è mai disprezzo della terra. La risurrezione, infatti, comincia sulla terra, perché l’amore del prossimo è unito all’amore di Dio, la terra è unita al cielo. Le vie della carità e della misericordia portano tutte a Dio, da qualsiasi direzione esse provengano.
L’annuncio è quello dell’apostolo Pietro, il pescatore di Galilea che la potenza dello Spirito ha trasformato in coraggioso annunciatore. Egli, ormai, non è più Satana il tentatore, che viene respinto da Gesù con parole forti; colui che vuole rimanere sul monte della trasfigurazione, perché ha paura delle incertezze della vita; colui che ha rinnegato Gesù davanti ad una servetta ed è scappato dal monte della crocifissione. Ora è il primo degli apostoli che affronta con coraggio la persecuzione dei giudei. Il suo annuncio del Cristo risorto è il nucleo della fede cristiana, tanto da far dire all’apostolo Paolo che se Cristo non fosse risorto la nostra fede sarebbe vana e noi saremmo dei tristi ingannati e ingannatori.
Che cosa ci insegna, ora, il racconto di un evento, di un annuncio, di una esortazione pasquali? Il Vaticano II ha scritto che il compito del cristiano è quello di “trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza”. Benedetto XVI ha scritto che “tutti i peccati dei cristiani nella storia non derivano dalla loro fede nel cielo, ma dal fatto che non credono abbastanza nel cielo”. Penso che i due riferimenti indichino sinteticamente ma efficacemente il compito del cristiano nell’annunciare la Pasqua: creare speranza, rendere credibile il cielo. Questo compito, però, è molto chiaro solo in teoria. In pratica, esso è messo in questione da un terribile interrogativo: è possibile dare speranza e rendere credibile il cielo alle famiglie degli ultimi morti ammazzati? A tanti genitori, disperati per le scelte di trasgressione dei figli? A tanti giovani, che non trovano lavoro, non trovano casa, che hanno messo in aspettativa anche gli affetti più intimi e le speranze più comuni? A tanti familiari, che si prendono cura degli spastici, dei malati di sla, degli invalidi permanenti?
La lista dei mali del mondo è molto lunga, perché sono molte le persone che non vedono mai la luce del sole, che non hanno parole né per ringraziare, né per esprimere sentimenti di amore o di dolore. Essa può creare disagio interiore ma non è retorica, perché l’esperienza del male, del fallimento esistenziale, del dolore fisico e morale, è la più universale di tutte le esperienze. E’ una bella sfida essere ottimisti nonostante le tragedie che insanguinano il mondo, i drammi segreti delle coscienze, le ingiustizie subite, l’incertezza del futuro! Non è facile sperare ed essere ottimisti in queste condizioni. Sono troppe le incertezze e sono troppi i dubbi. Anche quest’anno, nella veglia pasquale, ho intonato il canto dell’alleluia e le campane hanno suonato a festa. Ma chi ha sentito il canto dell’alleluia e il suono delle campane? L’annuncio della pasqua è rimasto dentro le mura di questa cattedrale, circoscritto nell’ambito di una celebrazione liturgica, o è arrivato nelle case della gente? Non ho risposte certe a queste domande, e non vorrei neppure banalizzare la loro drammaticità. Ho ben presenti, infatti, le difficoltà che la nostra gente trova nell’accogliere il messaggio integrale del vangelo della vita. Ma non posso non richiamare la fedeltà del cristiano ad un impegno concreto e coraggioso: creare speranza e rendere credibile il cielo.
La speranza è l’apertura del possibile. Essa fa riferimento a quei nuovi cieli e nuova terra che sono promessi dall’annuncio evangelico. Il cristiano crea speranza ed avvicina il cielo quando vive un’attesa da pellegrino in terra straniera. Nella pasqua di liberazione dell’antico Israele, quando l’angelo del Signore è passato, il popolo si è messo in cammino, e ha lasciato la terra straniera senza esitazione e senza spiegazione. Il cristiano è ben cosciente che non vive nella sua patria d’arrivo, che non vive nella stabilità e passività della meta raggiunta. Colui che spera vive il paradosso di essere nel mondo, ma non del mondo e, vivendolo, comunica ad altri il fascino di una vita ormai nascosta in Cristo. La speranza cristiana, lungi dall’essere un vago sentimento che le cose andranno bene, che anche dal male verrà alla fine del bene, che le cose dure della vita prima o poi termineranno, è uno sguardo che sa attraversare la morte senza evitarla, ma dandole significato alla luce della pasqua di Gesù.
Cari amici, crediamo nel cielo ma soprattutto rendiamo credibile il cielo! Il mio augurio pasquale è che tutti voi possiate rendere credibile il cielo piegandolo sulla terra, valle di lacrime, laboratorio di speranza.
Amen.
Omelia per il Pontificale del giorno di Pasqua
21-04-2019