Omelia per la festa di Sant’Ignazio da Laconi

11-05-2020

OMELIA PER LA FESTA DI S. IGNAZIO DA LACONI

Laconi, 11 maggio 2020

L’iconografia di S. Ignazio da Laconi, è ben conosciuta da tutti. La sua bisaccia e il bastone sono il distintivo specifico, che ci fa ricordare il suo servizio di questuante per le strade della città di Cagliari e il suo essere pellegrino instancabile nel visitare ammalati e persone bisognose.

Si tratta di immagini immediate che ci parlano di due dimensioni importanti della vita francescana: andare per l’elemosina, per la questua e l’itineranza francescana. Sappiamo dai biografi del Santo di Assisi che il giovane Francesco per vincere sé stesso, andava a chiedere l’elemosina proprio in quelle case e quegli ambienti dove prima lo avevano conosciuto ricco, famoso, spavaldo. Voleva provare la propria vocazione, mortificare l’amor proprio, voleva ricordare a sé stesso che bisogna vivere dell’essenziale e della carità degli altri.

Le Fonti Francescane tratteggiano ampiamente e con particolari proprio quello che può essere definito “l’elogio della mendicità “. Il Capitolo IX delle Fonti tratta proprio “Del chiedere l’elemosima” e così esordice: “Tutti i frati si impegnino a seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo, (..) che non “si vergognò; e fu povero e ospite, e visse di elemosine lui e la beata Vergine e i suoi discepoli”. La questua è dunque Regola di vita, mezzo, non fine a sé stesso, per giungere al bene superiore: “il vantaggio delle anime “. E qual miglior vantaggio per le anime della questua? Essa procura vantaggio all’anima del questuante come fonte di umiliazione facendogli vincere l’amor proprio e ogni residuo di superbia e presunzione -che ricordiamolo, furono all’origine della caduta del demonio- e i frati “per tali umiliazioni riceveranno grande onore presso il tribunale del Signore nostro Gesù Cristo“; i frati questuanti procurano inoltre vantaggio alle anime di coloro che donano: “grande ricompensa la fanno guadagnare e acquistare a quelli che la donano; poiché tutte le cose che gli uomini lasceranno nel mondo, periranno, ma della carità e delle elemosine che hanno fatto riceveranno il premio dal Signore

Sant’Ignazio da Laconi, ha incarnato questo ideale francescano del “frate questuante”. Giunse a Cagliari intorno al 1742 e da allora fino alla morte (per 40 anni) percorse, bisaccia in spalla, le vie della città: di Cagliari imparò a conoscere le pietre e i volti degli uomini. Fare la questua lo porta a camminare per tutta la città, a bussare a porte che a volte si aprono con generosità e a volte non si aprono; e purtroppo a volte le porte si aprivano solo per insultare e dire no.

In questo esercizio di umiltà cresce la spiritualità di Sant’Ignazio, ricordando quella pagina stupenda delle fonti dove san Francesco spiega a fra Leone in che cosa consiste la Perfetta Letizia: non  consiste nel sapere molte cose; non consiste nel convertire molti o fare molti miracoli (…) ma  – continua San Francesco – nell’affrontare le avversità, le ingiurie, le opposizioni, con spirito umile, con spirito paziente così come Cristo affrontò la sua passione, i flagelli, gli sputi, i rinnegamenti”.

Dunque, nel questuare, nel chiedere l’elemosina, Sant’Ignazio rivive -proprio come Francesco – il cammino della “perfetta Letizia” accogliendo sempre con umiltà, silenzio, pazienza, le cose buone e le contrarietà.

Fare la questua lo mette in stretta relazione con i poveri, l’attenzione al loro dolore e difficoltà. Sant’Ignazio, è vicino ai poveri soprattutto nei momenti della difficoltà, dell’angoscia. La sua parola di conforto, la sua cortesia, la sola sua presenza erano di incoraggiamento per le persone.

Vorrei accostare questa riflessione alla situazione che stiamo vivendo a causa della pandemia del coronavirus. Le conseguenze che questa malattia ha portato alla vita di ciascuno di noi sono ben note.

Si tratta di una piaga universale, dove i più colpiti sono i poveri: quelli che non hanno possibilità di curarsi, che vivono in paesi poveri e anche i poveri di casa nostra. Pensiamo al dramma di coloro che hanno dovuto chiudere le loro attività e con fatica e incertezza adesso riaprono. Ma in tanti non potranno farlo, se non a prezzo di altri sacrifici. Sono i nuovi volti della povertà. Si impone una riflessione non solo a livello di Stato sociale ma alla nostra attenzione di cristiani.

C’è un invito alla condivisione, all’aiuto reciproco, al fatto che siamo in un sistema interconnesso, davvero globale dove l’attenzione all’altro ricade ed ha conseguenze su di noi (pensiamo al comprare cibo sardo, cibo italiano) a come questo influisce sulla vita delle famiglie, dei lavoratori. Credo che dobbiamo attivare il codice della responsabilità, uscendo da quell’isolamento interiore che ci fa credere che ognuno pensa a sé e basta. Non è così. La globalizzazione della malattia ci ha fatto comprendere che può esistere una globalizzazione della solidarietà. Affidiamo a S. Ignazio questo nostra preghiera: che ci renda solidali, attenti ai poveri.

Permettete infine una parola, sull’altra caratteristica che ho segnalato come caratterizzante s. Ignazio: la sua itineranza instancabile. Tanti mesi di segregazione ci hanno fatto desiderare e riscoprire l’incontro, la relazione con gli altri, in famiglia, con i vicini, con i conoscenti. Valorizziamo questa dimensione dell’incontro con l’altro, superando quella terribile malattia dell’indifferenza, del pensare solo a sé. L’itineranza è certo fisica (spostarsi da un luogo all’altro) ma è anche mentale: uscire da sé (propri preconcetti, idee chiusure) per andare verso gli altri. Ci aiuti in questo S. Ignazio, con la sua intercessione.

+p. Roberto Carboni, arcivescovo